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Questo articolo è stato pubblicato il 06 novembre 2010 alle ore 09:08.
Il benessere di una nazione non si misura solo con il Pil, eppure «la difficoltà dell'economia italiana di crescere e di creare reddito non deve smettere di preoccuparci» perché «ci potremmo trovare di fronte a un bivio» fra il ritorno allo sviluppo e una lunga fase di stagnazione, se non di declino, come quello che toccò in sorte al nostro Paese nella seconda metà del Seicento, quando gli italiani, pensando di rimanere ricchi per sempre, si ostinarono a comportarsi da rentier.
Il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, ha scelto ieri l'occasione della sua Lectio magistralis in ricordo dell'economista Giorgio Fuà all'università di Ancona per lanciare un forte richiamo sulla necessità di riportare al centro del dibattito di politica economica il grave problema di crescita dell'economia italiana.
Si trattava, in una certa misura, di un tema obbligato, perché Fuà, l'economista fondatore dell'Istat scomparso nel settembre del 2000, è stato un grande studioso delle questioni dello sviluppo nei paesi industrializzati. E Draghi non si è tirato indietro. In un mondo nel quale sta cambiando rapidamente il peso specifico delle diverse aree economiche, ha affermato, la nostra economia risente più di altre di queste trasformazioni: «Essa manifesta da anni una incapacità a crescere a tassi sostenuti: l'ultima recessione ha fatto diminuire il Pil italiano di sette punti». Non basta: tra il 1998 e il 2008, cioè nei primi dieci anni di vita dell'Unione monetaria, il costo del lavoro per unità di prodotto nel settore privato è cresciuto del 24% in Italia e del 15% in Francia mentre in Germania è addirittura diminuito.
Questo gap crescente, dice Draghi, rispecchia essenzialmente un divario di produttività del lavoro: nei 10 anni è aumentata del 22% in Germania, del 18 per cento in Francia e solo del 3 in Italia. Ma cosa c'è dietro alla bassa produttività italiana? Draghi si affida a una definizione di Fuà a proposito del "modello di sviluppo tradivo" e sottolinea i molti dualismi del nostro sistema economico: da quello dimensionale delle imprese (per le imprese più piccole è sempre più difficile sfruttare le economie di scala e competere con successo nel mercato globale) al dualismo del mercato del lavoro, alla carenza di concorrenza nel mercato dei servizi.