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Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2012 alle ore 16:32.

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WASHINGTON, DC – È chiaro che la crisi dell’Eurozona si protrarrà anche nel 2012, nonostante la ripresa dei mercati azionari registrata all’inizio di febbraio. Le negoziazioni tra la Grecia e le banche sul debito sovrano potrebbero essersi concluse, ma resta alquanto incerto che le banche partecipino all’accordo in modo sufficientemente massiccio. Nel frattempo, il Fondo monetario internazionale ha sollevato la questione sulla riduzione del debito pubblico, possibilmente da parte della Banca centrale europea, inviando il messaggio che un haircut per gli investitori privati non sarà sufficiente a riportare la Grecia alla sostenibilità finanziaria.

I timori del Fmi sono fondati, ma l’idea non viene accolta con favore per i timori di contagio politico: altri Paesi dell’Eurozona in difficoltà debitoria potrebbero fare pressioni per ottenere pari trattamento. Inoltre, l’incremento delle risorse promesso dal Fmi, che consentirebbe di costruire un firewall più forte contro il contagio finanziario, non è ancora arrivato. E tutti i cambiamenti concordati per i fondi salva-Stati European Stabilization Fund (Esf) e European Stability Mechanism (Esm) devono ancora essere implementati.

Certo, alcuni passi sono stati fatti. La generosa iniezione di liquidità della Bce alle banche europee ad un tasso dell’1% per tre anni ha evitato che la crisi bancaria si aggiungesse alla crisi del debito sovrano. Ma questa iniziativa non è bastata a riportare i costi di indebitamento a lungo termine dei Paesi in difficoltà a livelli compatibili con i rispettivi tassi di crescita: c’è troppa incertezza nel lungo periodo e le prospettive di crescita sono assolutamente poco incoraggianti. A metà gennaio, infatti, Standard & Poor’s ha annunciato il downgrade di Francia e Austria (che hanno perso la tripla A), dopo aver già declassato altri sette Paesi dell’Eurozona – Slovenia, Slovacchia, Spagna, Malta, Italia, Cipro e Portogallo.

Ora appare evidente come l’importante sfida a carico dell’Eurozona sia riconducibile al fatto che l’unione monetaria non si accompagni a un’unione economica – un fenomeno senza equivalenti nel mondo. Di conseguenza, le divergenze riscontrate in questo periodo in termini di costi di produzione non possono essere compensate dagli aggiustamenti sul tasso di cambio.

In assenza di un’elevata inflazione nei Paesi in surplus (almeno al 4% l’anno), l’aggiustamento fa sì che la deflazione nei Paesi in difficoltà produca un calo notevole dei costi di produzione. In pratica, tale deflazione può essere raggiunta solo a fronte di un elevato tasso di disoccupazione e di malcontento sociale. Non è quindi chiaro se l’attuale strategia di austerity e deflazione sia politicamente fattibile, e questo spiega l’enorme incertezza che incombe su tutta Eurolandia.

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