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Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2012 alle ore 16:24.

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L’Irlanda deve gran parte di questo cambiamento all’efficiente settore dell’export, i cui sostenitori sono stati in grado di imporre un’inversione di marcia politica. La Grecia, invece, è sotto l’influenza di una potente lobby delle importazioni. Come ha affermato il ministro greco dell’economia, Michalis Chrysochoidis, ciò è attribuibile ai sussidi dell’Unione europea, che hanno spinto gli imprenditori a seguire i facili guadagni del settore importazioni.

Ora, questi importatori formano un potente baluardo contro qualsiasi politica che possa causare deflazione, anche se abbassare i prezzi – e quindi reindirizzare la domanda greca dai prodotti esteri a quelli domestici e sostenere il turismo – rappresenta l’unico modo per rimettere in sesto l’economia greca. Dal momento che il deficit delle partite correnti della Grecia in rapporto al Pil è stato tre volte superiore a quello dell’Irlanda, i prezzi greci dovrebbero scendere della metà per raggiungere gli stessi risultati. Non è pensabile che la Grecia possa gestire tale situazione all’interno dell’Eurozona senza scatenare diffusi disordini sociali, o addirittura condizioni simili a quelle di una guerra civile.

Ma non sono solo gli importatori a bloccare la svalutazione reale. Anche i sindacati si stanno opponendo alle necessarie riduzioni salariali, e i debitori pubblici e privati temono la prospettiva di un’insolvenza, se asset e rendite perdono valore, mentre i debiti restano invariati. Si tratta di una situazione difficile da gestire.

Molti guardano alla riduzione e socializzazione dei debiti come all’unica via d’uscita. Questo aiuto è stato dato. Il recente accordo ha concesso alla Grecia una riduzione del debito pari a 237 miliardi di euro (316 miliardi di dollari), circa il 30% in più del reddito netto nazionale del Paese pari all’incirca a 180 miliardi di euro. Ma tale aiuto rafforza solo un errato valore dei prezzi – e quindi la perdita di competitività dell’economia. I debiti riemergeranno come un tumore, crescendo di anno in anno, e compromettendo al contempo l’affidabilità creditizia dei Paesi stabili dell’Eurozona.

Se ciò accadesse, l’euro alla fine collasserebbe. Solo una riduzione dei prezzi potrebbe creare surplus delle partite correnti e consentire ai Paesi in crisi di estinguere i propri debiti con l’estero. È tempo che l’Europa faccia i conti con questa inesorabile verità.

Quei Paesi che non intendono assumersi il compito di ridurre i prezzi dovrebbero avere l’opportunità di lasciare temporaneamente l’Eurozona allo scopo di svalutare prezzi e debiti. In altre parole, dovrebbero prendersi una sorta di anno sabbatico dall’euro – una proposta avanzata anche dall’economista americano .

Una volta placatasi la tempesta finanziaria, il sole potrebbe tornare a risplendere. Gli Stati creditori dovrebbero accollarsi le grandi perdite derivanti dalle svalutazioni, ma alla fine si ritroverebbero più di quanto avrebbero ottenuto se i Paesi in crisi fossero rimasti all’interno dell’Eurozona, perché una nuova prosperità di questi Paesi, derivante dall’abbandono dell’euro, rappresenta l’unica chance di recuperare terreno.

Hans-Werner Sinn è professore di economia e finanza pubblica presso l’Università di Monaco, e presidente dell’istituto tedesco Ifo.

Copyright: Project Syndicate, 2012.www.project-syndicate.orgTraduzione di Simona Polverino

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