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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2012 alle ore 16:55.

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CAMBRIDGE – La questione tuttora al centro di numerose discussioni sullo sviluppo economico è la seguente: cosa possiamo fare noi per rilanciare la crescita economica e ridurre la povertà in tutto il mondo? Il noi talvolta è la Banca mondiale, talvolta sono gli Stati Uniti e altri Paesi ricchi, talvolta i professori di economia dello sviluppo e i loro studenti riuniti in un’aula di seminario. È su questo tema che si basa l’intera politica di aiuti allo sviluppo.

Ma ciò che ha trasformato la Tunisia, l’Egitto e la Libia negli ultimi due anni non sono stati i tentativi del mondo esterno di migliorare queste società o le loro economie, bensì l’intento dei movimenti sociali popolari di modificare i sistemi politici dei rispettivi Paesi. Tutto ha avuto inizio in Tunisia, dove la rivoluzione ha sovvertito il regime repressivo del presidente Zine El Abidine Ben Ali. Poi si è diffusa in Egitto e in Libia, ponendo fine ai regimi ancor più repressivi e corrotti di Hosni Mubarak e Muammar el-Qaddafi.

Le persone che si sono riversate nelle strade e hanno rischiato la propria vita erano stanche della repressione e della povertà perpetrate da questi regimi. Il livello di reddito dell’egiziano medio, ad esempio, si aggira appena attorno al 12% rispetto a quello dell’americano medio, e l’aspettativa di vita degli egiziani è inferiore di 10 anni. Il 20% della popolazione vive in estrema povertà.

I dimostranti di Piazza Tahrir hanno ricondotto le cause della povertà in Egitto al suo sistema politico repressivo e non reattivo, al suo governo corrotto e alla generale mancanza di pari opportunità in ogni sfera della loro vita. Hanno visto i propri leader politici come parte del problema e non come parte della soluzione. Gli outsider, invece, alla domanda Noi cosa possiamo fare?, hanno posto l’accento su fattori geografici o culturali o sulla trappola della povertà puramente economica, i cui effetti dovrebbero essere annullati dal supporto e dall’assistenza estera.

Non ci si deve illudere che la trasformazione messa in atto dai manifestanti sarà morbida. Numerose rivoluzioni precedenti hanno deposto un gruppo di governanti corrotti solo per farne emergere un altro ugualmente corrotto, violento e repressivo. Non esiste alcuna garanzia che le precedenti élite non possano ricostituire simili regimi.

Ora l’esercito, baluardo del regime di Mubarak, governa l’Egitto, e reprime, imprigiona e uccide i dimostranti che osano ribellarsi. Più recentemente ha manifestato la propria volontà di scrivere una nuova costituzione prima delle elezioni presidenziali, mentre la sua commissione elettorale ha interdetto 10 candidati presidenziali su 23 senza alcun fondamento. E, se l’esercito allentasse le redini, i Fratelli musulmani potrebbero prendere il sopravvento e formare il proprio regime autoritario e non rappresentativo.

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