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Questo articolo è stato pubblicato il 21 settembre 2012 alle ore 19:17.

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Nessuno è riuscito meglio nel moderno gioco politico americano delle maggiori banche di Wall Street, le quali, dopo aver spinto per la liberalizzazione nei trent'anni precedenti la crisi del 2008, hanno fatto marcia indietro contrastando quasi qualunque tipo di riforma finanziaria.

Tale successo ha ripagato profumatamente. I dirigenti di quattordici società finanziarie leader nel settore hanno ricevuto un indennizzo in contanti, sotto forma di stipendi, bonus e/o diritti di opzione esercitati, per un totale di circa 2,5 miliardi di dollari nel periodo 2000-2008, di cui due miliardi destinati a cinque persone soltanto.

Ma questi padroni dell'universo non hanno guadagnato quel denaro senza un enorme aiuto da parte dello Stato. Essendo percepite come "troppo grandi per fallire", le loro banche beneficiano di una protezione governativa o garanzia contro il rischio di downside. In tal modo, sono in grado di assumersi rischi maggiori, come gestire un'impresa con più capitale di prestito e meno capitale azionario. In tal modo, guadagnano di più quando le cose vanno bene e approfittano del sostegno statale quando la fortuna volta loro le spalle: chi è ai vertici vince e noi, che siamo l'ultima ruota del carro, perdiamo.

E le perdite derivanti da questo meccanismo sono enormi. Secondo un sulle conseguenze della crisi del 2008, realizzato da Better Markets, un gruppo di pressione che chiede riforme finanziarie più incisive, per l'economia degli Stati Uniti il costo della crisi finanziaria - causata da una sconsiderata assunzione del rischio da parte degli istituti finanziari - ammonta ad almeno 12.800 miliardi di dollari. Una parte notevole di questa cifra si è presentata sotto forma di posti di lavoro persi e vite rovinate per il 47% appartenente alla fascia di distribuzione del reddito più bassa.

L'ex governatore dello Utah e candidato repubblicano alle presidenziali. Jon Huntsman, ha più volte affrontato questo problema con chiarezza, mentre cercava, invano, di ottenere dal suo partito la nomina a sfidante del presidente Barack Obama. Per tagliare le sovvenzioni statali bisogna smantellare le banche, ha dichiarato, e il modo per farlo è ridimensionarle fino al fallimento, per poi lasciare che sia il mercato a decidere quali debbano affondare e quali salvarsi.

Questo è un argomento intorno al quale tutti i conservatori dovrebbero mobilitarsi. Dopotutto, l’ascesa delle megabanche mondiali non è stata un risultato del mercato; queste banche sono imprese sponsorizzate e sovvenzionate dallo Stato, quindi sostenute dai contribuenti (questo vale oggi tanto per l'Europa quanto per gli Stati Uniti).

Romney ha ragione a sollevare la questione delle sovvenzioni statali, ma travisa completamente quanto è successo negli Stati Uniti negli ultimi quattro anni. Le grandi sovvenzioni poco trasparenti e pericolose sono potenziali passività fuori bilancio, generate dagli aiuti statali a enti finanziari troppo grandi per fallire. Tali sovvenzioni non compaiono in nessuno stanziamento annuale, e non sono misurate in modo accurato, che è ciò che le rende così interessanti per le grandi banche e così dannose per tutti gli altri.

Se solo Romney avesse canalizzato il disprezzo popolare per le sovvenzioni statali contro le megabanche mondiali, ora navigherebbe col vento in poppa verso la Casa Bianca. Invece, colpendo quel 47% dell'America che si trova già con l'acqua alla gola, cioè i contribuenti più danneggiati dall'incauto comportamento delle banche, la sua prospettiva di vittoria a novembre è stata gravemente compromessa.

Traduzione di Federica Frasca

Simon Johnson, già capo economista del FMI, è co-fondatore di uno dei più importanti blog di economia, , docente presso la MIT Sloan, senior fellow al Peterson Institute for International Economics, e co-autore, insieme a James Kwak, del volume White House Burning: The Founding Fathers, Our National Debt, and Why It Matters to You.

Copyright: Project Syndicate, 2012.

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