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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2012 alle ore 11:17.

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CAMBRIDGE – E’ ufficiale. Il ha approvato il controllo sui capitali legittimando l’utilizzo delle imposte e di altre misure di restrizione sui flussi finanziari transnazionali.

Poco tempo fa, l’FMI aveva spinto i paesi, ricchi e poveri, ad aprirsi ai finanziamenti stranieri. Ora ha riconosciuto la realtà dei fatti, ovvero che la globalizzazione finanziaria può essere distruttiva e indurre a crisi finanziarie e a movimenti valutari economicamente sfavorevoli.

Quindi eccoci di fronte all’ennesima svolta nell’infinita saga della relazione di odio e amore con il controllo dei capitali.

Con il sistema dello standard, prevalente fino al 1914, la mobilità del capital libero era sacrosanta. Tuttavia, la turbolenza del periodo tra le due guerre convinse molti (e notoriamente anche John Manyard Keynes) del fatto che un conto capitale aperto fosse incompatibile con la stabilità macroeconomica. Il nuovo consenso venne rispecchiato nell’accordo di Bretton Woods del 1944 che comprendeva il controllo del capitale negli dell’FMI. Come disse Keynes al tempo, ciò che veniva considerata un’eresia è ora diventata ortodossia.

Tuttavia, entro la fine degli anni ’80, i policy maker si erano invaghiti nuovamente della mobilità del capitale. Nel 1992, l’Unione europea rese illegale il controllo sul capitale mentre l’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica applicò un sistema di finanziamento libero sui membri nuovi aprendo la strada alla crisi finanziaria del Messico e della Corea del Sud rispettivamente nel 1994 e nel 1997. L’FMI adottò l’agenda con entusiasmo e la sua leadership tentò (senza successo) di modificare gli articoli dell’accordo al fine di dare al fondo un potere formale sulle politiche relative al conto capitale dei suoi paesi membri.

Finché sono stati i paesi in via di sviluppo ad essere continuamente tra l’incudine e il martello a causa della finanza globale, è stato di moda colpevolizzare la vittima. L’FMI e gli economisti occidentali sostenevano che i governi del Messico, della Corea del Sud, del Brasile, della Turchia e di altri paesi non avevano adottato le politiche (regolamenti cauti, restrizioni fiscali e controlli monetari) necessarie per trarre vantaggio dai flussi di capitale ed evitare la crisi. Il problema dipendeva quindi dalle politiche interne e non dalla globalizzazione finanziaria, pertanto la soluzione si doveva trovare attraverso riforme interne e non tramite il controllo dei flussi di capitale transnazionale.

Quando, nel 2008, anche le economie avanzate sono diventate vittime della globalizzazione finanziaria, non è più stato così facile mantenere quest’argomentazione. È’ diventato più chiaro che il problema dipende in realtà dall’instabilità dello stesso sistema finanziario globale (gli attacchi di euforia seguiti da improvvise battute d’arresto e cambi di tendenza che sono insiti nei mercati finanziari non monitorati e non regolamentati. Pertanto il riconoscimento da parte dell’FMI che è giusto da parte dei paesi tentare di proteggersi da questi modelli è ben accetto e giunge appena in tempo.

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