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Questo articolo è stato pubblicato il 28 dicembre 2012 alle ore 18:12.

Ovviamente, il fatto di avere un modello non dà alcuna garanzia di aver ragione: la teoria del ciclo economico reale sicuramente rientra nella definizione di modello che ho appena fornito, ma a mio parere dà un'interpretazione sostanzialmente sbagliata della natura delle recessioni.
Tuttavia, elaborare un modello mette al riparo da alcuni tipi di errori, in particolare quelli originati da una scarsa attenzione agli effetti combinati dei vari elementi. Gran parte di quelle analisi infondate sulla situazione del dopoguerra in Europa si basavano su un errore quasi ridicolo: gli economisti si erano dimenticati che il fatto di non avere concorrenti non era d'aiuto, dal momento che le aziende europee non avevano nemmeno clienti. Avere un modello aiuta a evitare inciampi del genere.
L'analisi di John Hicks e le sue versioni successive ci dicono che il progresso tecnologico in altri Paesi può favorire o danneggiare i loro concorrenti, a seconda delle industrie coinvolte. L'aspetto interessante di questa analisi da un punto di vista politico è che lo stesso modello (più o meno) è stato usato in periodi diversi a sostegno di cause diverse. Nell'Europa del dopoguerra, l'analisi hicksiana fu usata come contraltare alle tesi contro l'apertura delle economie di mercato agli scambi: in sostanza, se vogliamo, fu usata a supporto delle tesi liberoscambiste. Nei primi anni 90, lo stesso tipo di analisi fu utilizzato per contrastare le richieste protezionistiche della sinistra e le tesi assistenzialiste in favore di sussidi alle imprese americane per metterle in grado di competere con la concorrenza giapponese.
Ma in questo momento l'analisi hicksiana si rivela utile soprattutto per smentire le tesi della destra secondo cui l'esperienza statunitense degli anni 50 e 60, quando salari alti e tassazione progressiva andavano a braccetto con una crescita sostenuta, non ha valore perché all'epoca non c'era concorrenza a livello internazionale. Il punto è che un modello economico valido non è uno slogan propagandistico, da accantonare se cambia la linea del partito. Al contrario, è una struttura che può essere usata per migliorare la nostra comprensione in numerosi contesti.
Tra l'altro, la risposta migliore ai tentativi di sbugiardare un economista («Ti ho beccato! Nel 2003 avevi detto esattamente il contrario!») è chiedere se e in che modo è cambiato il modello utilizzato dall'economista in questione. Se sta usando lo stesso modello, ma è un modello che possiede implicazioni di politica economica differenti a seconda delle situazioni, lo sbugiardamento si ritorce contro chi lo fa. Se invece l'economista ha cambiato il suo modello di riferimento, la domanda è perché lo ha fatto e se c'erano ragioni valide per cambiare.
E sì, personalmente ho cambiato modelli di riferimento, solitamente a fronte delle esperienze fatte. Per esempio fino al 1998, quando gli eventi in Asia mi hanno indotto a cambiare opinione, non prendevo sul serio le trappole della liquidità o la possibilità di crisi valutarie in grado di autoalimentarsi. E il fatto di aver dato prova di flessibilità intellettuale è qualcosa di cui non mi vergono, ma che anzi mi rende orgoglioso. Quello che non credo di aver fatto è modificare i miei modelli per sostenere una posizione politica o una misura economica predeterminata: questo sì è indiscutibilmente un peccato. In sostanza, pensate in termini di modelli: vi renderà persone migliori.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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