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Questo articolo è stato pubblicato il 28 gennaio 2013 alle ore 17:27.

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ROME – Ci sono a volte eventi che possono avere un impatto decisivo per l’umanità, ma che passano spesso inosservati nel momento in cui avvengono. Un evento del genere si è verificato questo dicembre a Roma. Il Consiglio della FAO, l’Organizzazione dell’ONU per l’Alimentazione e l’Agricoltura, ha deciso che l’obiettivo della FAO non debba più essere semplicemente la riduzione della fame, ma la completa eliminazione di fame, insicurezza alimentare e malnutrizione, e di confermare questo cambiamento alla Conferenza della FAO, alla quale partecipano tutti i paesi membri dell’Organizzazione, che avrà luogo nel giugno 2013.

A molti questo piccolo cambiamento nella formulazione potrà sembrare di poco conto. Qualcuno polemicamente dirà che adottare un obiettivo del genere senza fissare una data in cui raggiungerlo non ha senso. Altri obietteranno che la sola idea di eliminare la fame è una sciocchezza, perché mancano i mezzi per farlo.

Negli ultimi 12 anni l’Obiettivo di Sviluppo del Millennio di dimezzare la fame entro il 2015 è stata la principale forza trainante dell’impegno per ridurla. La proporzione delle persone che soffrono la fame nei paesi in via di sviluppo è diminuita in modo significativo, passando dal 23,2 % degli anni 1990-92 al 14,9% di oggi. Tuttavia, questo calo è dovuto più all’aumento demografico che alla leggera riduzione del numero effettivo delle persone che soffrono di malnutrizione (da circa 980 milioni di persone agli attuali 852 milioni).

L’obiettivo di dimezzare ha di per sé una scarsa carica politica perché implicitamente condanna la metà esclusa a una vita ai margini della società, alle malattie e alla morte prematura. La strategia del programma Fame Zero in Brasile ha dimostrato invece che l’adozione dell’obiettivo di una completa eliminazione della fame offre un potente mezzo per galvanizzare tutti i settori di un governo in un’azione coordinata e su larga scala e di mobilitare l’intera società nell’impegno di un’intera nazione di porre fine ad una della più colossali ingiustizie del nostro tempo.

Di sicuro sarà sempre più arduo - ma certo non impossibile - soddisfare la crescente domanda mondiale di cibo e farlo in modo sostenibile. Dovrà essere prodotta una maggiore quantità di cibo, usando però tecnologie che non danneggino le risorse naturali, di cui le generazioni future avranno bisogno per nutrirsi, che non alimentino il cambiamento climatico, che non pesino sugli agricoltori e che non accelerino la disintegrazione del delicato tessuto della società rurale.

Ma la sfida non è così scoraggiante come potrebbe apparire. Il tasso di crescita demografica sarà molto più lento di quanto non sia stato negli ultimi 50 anni, e c’è una maggiore possibilità di ridurre l’enorme quantità di cibo che oggi va sprecato. Peraltro, con l’incremento del reddito, le persone potrebbero più facilmente persuadersi ad adottare diete più salutari e rispettose dell’ambiente di quelle dei paesi sviluppati. Il doppio fardello di malnutrizione e fame, che convivono con obesità, alti tassi di diabete e altre malattie dovute a eccessivo consumo alimentare, chiaramente dimostra l’importanza crescente di un riequilibrio delle diete a livello globale.

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