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Questo articolo è stato pubblicato il 04 febbraio 2013 alle ore 15:46.

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Hanno fallito miseramente - ad un livello che la professione economica comincia solo ora a riconoscere pienamente - anche i modelli macroeconomici delle banche centrali più all’avanguardia. Anche se, nel prendere le sue decisioni, la Fed valuta molti approcci ed indicatori, non vi è dubbio che è stata fortemente influenzata dal pensiero accademico prevalente - tra cui i cosiddetti modelli del ciclo economico reale e dai nuovi modelli keynesiani – modelli che assumevano che i mercati finanziari operassero in modo perfetto. In effetti, la professione economica e le principali banche centrali del mondo promuovevano l'idea della "grande moderazione" - il silenziamento della volatilità macroeconomica, in parte grazie ad un approccio alle politiche in teoria più scientifico, basato su modelli, delle autorità monetarie.

Ora sappiamo che i modelli macroeconomici canonici non riconoscono in modo adeguato la fragilità dei mercati finanziari, e che il loro adattamento, mantenendone la trattabilità, è un compito arduo. Francamente, se i modelli avessero almeno ammesso la possibilità di imperfezioni del mercato del credito, la Fed avrebbe prestato maggiore attenzione agli indicatori del mercato del credito, in quanto espressione delle condizioni complessive del mercato finanziario, come fanno le banche centrali nei paesi emergenti.

Da ultimo ma non di minore importanza, c’è da notare che anche se la Fed avesse meglio compreso i rischi, non le sarebbe stato facile evitare la crisi da sola. L'efficacia della politica di controllo del tasso d’interesse è limitata, e molti dei problemi più gravi erano basati sugli aspetti normativi.

E non è stato facile calibrare una risposta. Alla fine del 2007, per esempio, la Fed e il Tesoro degli Stati Uniti avevano molto probabilmente già visto almeno un resoconto nel quale si sosteneva che solo il massiccio intervento a sostegno dei mutui subprime avrebbe potuto prevenire una catastrofe. L'idea era quella di salvare il sistema finanziario dall’avere a che fare con lo smantellamento in sicurezza delle strutture contrattuali, incredibilmente complesse - che non consideravano la possibilità di un collasso sistemico - che aveva costruito.

Tale piano di salvataggio sarebbe costato una cifra stimata di 500 miliardi o più, e tra i principali beneficiari sarebbero state incluse le grandi società finanziarie. C'era qualche reale possibilità che una tale misura sarebbe passata al Congresso prima che ci fosse il sangue per le strade?

In effetti, è proprio questa logica che mi ha portato a fare in un ampio discorso tenuto a Singapore il 19 agosto 2008, un mese prima che fallisse la Lehman Brothers. Ho sostenuto che le cose non sarebbero migliorate fino a che non fossero andate molto peggio, e che il crollo di una delle più grandi società finanziarie del mondo era imminente. La mia tesi si basava sulla mia prospettiva che vedeva l'economia globale sul punto di entrare in una grave fase recessiva, ed sull’aiuto del mio lavoro quantitativo, con Carmen Reinhart, sulla storia delle crisi finanziarie.

Non cercavo di fare scalpore a Singapore. Ho pensato che quello che stavo dicendo era del tutto evidente. Tuttavia, la mia previsione si è guadagnata grossi titoli di prima pagina su molti grandi giornali, in tutto il mondo. Ha guadagnato i titoli, evidentemente, perché era ancora lontana da una visione condivisa, anche se le preoccupazioni stavano aumentando.

Aumentavano anche le preoccupazioni della Fed nell'estate del 2008? Dovremo attendere il prossimo anno per scoprirlo. Ma, quando lo faremo, dobbiamo ricordare che è molto facile ragionare con il senno di poi.

Kenneth Rogoff ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, è Professore di Economics e Public Policy presso la Harvard University .
Copyright: Project Syndicate, 2013.

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