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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2013 alle ore 14:56.

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Perché le isole ai margini dell'Europa sembrano avere tutti questi problemi? C'è forse un risvolto psicologico particolare, legato alla prossimità più l'illusione dell'isolamento, che le spinge a trasformarsi in santuari per banche improvvide? È un quesito interessante per le menti curiose.

In ogni caso, la storia di Cipro presenta evidenti parallelismi con quelle di Islanda e Irlanda, con il riciclaggio di denaro sporco russo come ingrediente extra, nel caso dell'isola del Mediterraneo.

Tutte e tre queste isole-Stato hanno conosciuto una crescita rapida grazie al loro status di santuari del banking internazionale, che però li ha lasciati con un sistema bancario troppo gonfiato per poter essere salvato. In Islanda, all'apice dell'espansione, le banche detenevano attività per un valore pari al 980 per cento del prodotto interno lordo, l'Irlanda al 440 per cento. Cipro, con attività intorno all'800 per cento del prodotto interno lordo, da questo punto di vista era più vicina all'Islanda.

In tutti e tre i casi la crisi è nata da un settore bancario fuori controllo (anche se non tutti sembrano esserne consapevoli, nemmeno adesso). L'Islanda è uscita dalla crisi con meno ammaccature dell'Irlanda, e questo per due ragioni. La prima è che non ha coperto i debiti delle sue banche verso i creditori esteri, nemmeno i soldi depositati in conti correnti fuori dai confini nazionali. La seconda è che poteva contare sulla flessibilità che deriva dal fatto di avere una propria valuta. Quest'ultimo vantaggio ha favorito l'aggiustamento dell'economia islandese in termini reali, e ha consentito in una certa misura un processo di repressione finanziaria dagli effetti non troppo dirompenti, perché la svalutazione della corona (abbinata a controlli temporanei sui capitali) ha determinato una breve impennata dell'inflazione che ha eroso il valore reale dei depositi. I risparmiatori ci hanno rimesso, ma con istituti di credito cresciuti fino a dieci volte il Pil nazionale sarebbe successo comunque, in un modo o nell'altro.

Cipro, sfortunatamente, sembra aver fatto un gran pasticcio. A essere sinceri, il prelievo forzoso sui depositi che è stato proposto in realtà era meno pesante delle perdite subite in termini reali dai depositanti islandesi (che ci hanno rimesso anche con le loro proprietà in valuta estera). Ma questo è solo l'inizio: anche con il default di fatto sui depositi, Cipro avrà bisogno di un prestito colossale dalla troika – la Bce, la Commissione Ue e l'Fmi – e la condizione inserobabile per ottenere questo prestito sarà un'austerity spietata.

Quanto pesa il fattore russo nella crisi cipriota? Parecchio, a quanto sembra. Sul Financial Times, la blogger finanziaria Izabella Kaminska ha parlato di stime che indicano in 19 miliardi di euro i depositi di cittadini russi nelle banche cipriote, una cifra superiore al Pil nazionale. Non sono molto esperto in questo campo, ma mi chiedo se questa stima non sia al di sotto della realtà: considerato quello che pensiamo di sapere sulla natura di gran parte di questi soldi russi, siamo sicuri che vengano effettivamente dichiarati come tali?

Voglio sottolineare un aspetto più generale. Abbiamo visto tre nazioni insulari, ai quattro angoli dell'Europa, trasformarsi in snodi dell'attività bancaria internazionale di proporzioni enormi rispetto al loro Pil, quindi entrare in crisi perché la loro economia non ha le risorse necessarie per salvare questi sistemi bancari metastatizzati quando qualcosa va storto. Tutto questo indica, almeno ai miei occhi, che esiste un problema di fondo nell'architettura della finanza internazionale.

A meno che non siate seguaci della scuola di pensiero «è tutta colpa di Barney Frank», siete consapevoli che la crisi globale del 2008 è stata resa possibile in buon parte dall'erosione della regolamentazione del settore bancario. Come ha documentato l'economista Gary Gorton, dopo la Grande Depressione ci fu un «periodo di quiete» di settant'anni, in cui le crisi finanziarie importanti nei Paesi avanzati erano diventate un evento raro. Gorton sostiene, e la maggior parte di noi è d'accordo, che il segreto di questa quiete è da ricercarsi nella presenza di un sistema finanziario regolamentato e vincolato, che serviva anche a limitare le opportunità di indebitamento eccessivo al di fuori del settore bancario.

Ma questa regolamentazione dipendeva a sua volta, in larga misura, dal fatto che i flussi di capitali internazionali erano limitati, perché altrimenti le regole fissate negli Stati Uniti o in altri Paesi sarebbero state aggirate passando per paradisi fiscali come, appunto, Cipro. E quando si è cominciato a eliminare questi controlli di capitale, negli anni 70, siamo entrati in un'era di crisi finanziarie sempre più imponenti, prima in America Latina, poi in Asia e infine nel mondo intero.

Cosa possiamo fare, allora? Cipro, essendo un Paese dell'euro, dovrebbe essere protetto da una rete di sicurezza comune a tutta l'Eurozona, sostenuta da un'adeguata regolamentazione. E' follia pensare che l'euro possa essere gestito indefinitamente ed esclusivamente con garanzie nazionali sui depositi: ma una garanzia sui depositi europea non sembra probabile e in ogni caso ci sono parecchie altre Cipro potenziali in giro. Tutto questo fa sorgere una domanda: l'era del libero movimento dei capitali è solo una bolla destinata a finire in futuro non lontano, forse tra qualche anno?

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