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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2013 alle ore 12:49.

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PECHINO – Malgrado le fluttuazioni la crescita economica generale della Cina è stata stabile negli ultimi tre decenni, non solo grazie ai solidi fondamentali economici, ma anche per la riuscita gestione da parte del governo dei flussi di capitale oltrefrontiera.

I controlli sui capitali hanno consentito alla Cina di uscire indenne dalla crisi finanziaria asiatica del 1997-1998, anche se il suo sistema finanziario era tanto fragile quanto quello dei Paesi colpiti. La crisi finanziaria asiatica ha convinto i leader cinesi ad accantonare quei piani, lanciati nel 1994, tesi alla liberalizzazione dei conti capitali.

Nel 2002 la Cina si era riattivata sul fronte della liberalizzazione, sollevando le restrizioni sulla capacità delle imprese cinesi di aprire conti bancari in valuta estera e consentendo ai residenti sia di aprire conti in valuta estera sia di convertire ogni anno l’equivalente in renminbi di 50mila dollari in monete estere. Le autorità avevano altresì introdotto il programma qualified domestic institutional investors (Qdii) per consentire ai residenti di investire in asset esteri – una delle tante iniziative finalizzate ad allentare la pressione verso l’alto sul tasso di cambio del renminbi incoraggiando i flussi di capitale verso l’esterno. Allo stesso tempo, lo schema qualified financial institutional investors (Qfii) ha consentito agli enti esteri ufficiali di investire nei mercati di capitale domestici.

All’inizio del 2012 la People’s Bank of China (Pboc) ha reso noto un report che chiede ai policy maker di cogliere i benefici dell’opportunità strategica di accelerare la liberalizzazione dei conti capitale. Subito dopo l’annuncio, le quotazioni del Qfii sono scese in modo significativo.

Questo tipo di accelerazione, in effetti, è in corso da quando il governo ha avviato l’internazionalizzazione del renminbi nel 2009. Sebbene l’internalizzazione monetaria non sia equivalente alla liberalizzazione dei conti capitale, i progressi fatti sul primo presuppongono i progressi sull’ultimo. Consentendo alle imprese di scegliere le valute per le transazioni commerciali e creando meccanismi di riciclo del renminbi il governo effettivamente ha attenuato le restrizioni sui flussi di capitale oltrefrontiera a breve scadenza.

Gran parte degli economisti in Cina sembra sostenere la posizione della Pboc, citando i potenziali benefici della liberalizzazione dei conti capitale. Ma i policy maker cinesi dovrebbero anche riconoscere i rischi significativi inerenti l’alleggerimento dei controlli sui capitali.

Innanzitutto, la Cina ha bisogno dei controlli sui capitale per mantenere l’indipendenza della politica monetaria fino a quando non sarà pronta ad adottare un regime di tassi cambio fluttuante. Come ha fatto presente nell’ambito del sistema di Bretton Woods del secondo dopoguerra, i controlli sui capitali indeboliscono il legame tra politiche domestiche e politiche economiche estere, garantendo ai governi il margine per perseguire altri obiettivi. Dal momento che i controlli di capitale hanno ridotto le risorse di cui i mercati potrebbero avvalersi contro l’ancoraggio al tasso di cambio, hanno limitato i passi che i governi dovevano fare per difendersi da tale pratica. Con i surplus di conto corrente e conto capitale, il tasso di cambio del renminbi tende tuttora al rialzo. Senza adeguati controlli sugli afflussi di capitale oltrefrontiera a breve scadenza, la Pbco farà fatica a mantenere l’indipendenza della politica monetaria e contemporaneamente la stabilità del tasso di cambio.

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