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Questo articolo è stato pubblicato il 14 aprile 2013 alle ore 00:32.

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WASHINGTON, DC – Secondo alcuni osservatori la lezione principale del battesimo del fuoco dell’Eurozona è che serve una maggiore integrazione fiscale e bancaria per sostenere l’unione monetaria, eppure molti economisti avevano già prospettato questo scenario prima dell’avvento dell’euro nel 1999. Le vere lezioni della crisi dell’euro risiedono altrove – e sono del tutto nuove e sorprendenti.

Comunemente si crede che la situazione ottimale delle unioni monetarie possa essere valutata su due basi. La prima: le regioni da unire devono essere simili o dissimili in termini di vulnerabilità agli shock esterni delle loro economie? Più sono simili le regioni più risulta ottimale la risultante area valutaria, perché le risposte politiche potrebbero essere applicate uniformemente su tutto il territorio.

Se le strutture economiche fossero dissimili, allora il secondo criterio diventerebbe cruciale: gli accordi in essere dovrebbero adattarsi agli shock asimmetrici? I due piani principali enfatizzati dalla maggior parte degli economisti sono stati i trasferimenti, che potrebbero attenuare gli shock nelle regioni maggiormente colpite e la mobilità del lavoro, che consentirebbe ai lavoratori provenienti da tali regioni di spostarsi nelle aree meno colpite.

L’ironia è che l’impeto verso l’unione monetaria è stata in parte il risultato del riconoscimento delle asimmetrie. Quindi, dopo le svalutazioni della sterlina e della lira avvenute all’inizio degli anni Novanta, con i conseguenti shock commerciali negativi nei confronti di Francia e Germania, abbiamo imparato che serviva una moneta unica per evitare che ricorressero nuovamente questi tipi di shock.

Questa visione ignorava però una caratteristica cruciale delle unioni monetarie: la libera mobilità di capitali e l’eliminazione del rischio valutario – caratteristiche indispensabili di un’area valutaria – potevano essere (e sono state) fonte di shock asimmetrici. Le unioni valutarie, in altre parole, devono preoccuparsi sia degli shock endogeni che di quelli esogeni.

La libera mobilità di capitali ha consentito che i surplus dei grandi risparmiatori come la Germania fluissero verso importatori di capitali come la Spagna, mentre l’eliminazione percepita del rischio valutario è servita a peggiorare tali flussi. Per gli investitori gli asset immobiliari spagnoli sembravano un grande investimento, perché le forze di convergenza economica liberate dall’euro avrebbero sicuramente spinto al rialzo i loro prezzi – e perché non vi era peseta che potesse perdere valore.

Questi flussi di capitale hanno creato un boom – e una perdita di competitività a lungo termine – in alcune regioni, cui è seguita una fase di contrazione del tutto prevedibile. Nella misura in cui gli accordi monetari e fiscali non riescono a ridurre o eliminare l’azzardo morale, il rischio che i flussi di capitale possano creare questi shock endogeni e asimmetrici resterà pressoché elevato.

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