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Questo articolo è stato pubblicato il 17 aprile 2013 alle ore 11:12.

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Perché i Paesi ad alto reddito non sono intrappolati nella deflazione? È questo il grande enigma odierno, non l'assenza di quell'iperinflazione che gli isterici paventano senza motivo. È strano che l'inflazione sia rimasta così stabile nonostante l'enorme calo della produzione rispetto alle tendenze ante-crisi e nonostante il protrarsi delle gravi difficoltà occupazionali. Capire le ragioni di questo fenomeno è importante perché dalla risposta dipende la linea di politica economica. Fortunatamente le notizie sono buone. La stabilità dell'inflazione sembra ricompensare la credibilità dell'inflation targeting, lasciando margine alle autorità monetarie per avventurarsi in politiche espansive. Paradossalmente, il successo della strategia basata sugli obbiettivi di inflazione ha rilanciato la stabilizzazione macroeconomica keynesiana.

Un capitolo dell'ultimo World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale offre argomenti a sostegno di questa incoraggiante conclusione, come hanno già fatto notare, fra gli altri, Gavyn Davies e Paul Krugman. Il punto di partenza è la vischiosità dell'inflazione nonostante la prolungata fase di forte disoccupazione. Insomma, dichiara il Fmi, «abbiamo trovato un cane che non abbaia».

Una possibile spiegazione è che si tratti di un fenomeno strutturale. Molti sostengono, per esempio, che quelli che lavoravano nell'edilizia e in altre attività interessate dalle bolle speculative e hanno perso il posto non hanno le competenze giuste o non vivono nel posto giusto per cogliere le opportunità lavorative disponibili in questo momento (o che saranno disponibili fra non molto). Inoltre, se non si interviene per combattere la disoccupazione, la mancanza di lavoro temporanea rischia di diventare permanente, perché i lavoratori perdono quelle competenze e quelle reti di contatti che rendono relativamente facile trovare lavoro. La durata della Grande Recessione ha portato quindi la disoccupazione di lungo periodo vicino a livelli record. Tutti questi fattori indeboliscono tendenzialmente la concorrenza nel mercato del lavoro.

C'è una spiegazione alternativa più incoraggiante, e cioè che la strategia di inflation targeting ha stabilizzato le aspettative e di conseguenza il comportamento del mercato del lavoro. Inoltre, gli obbiettivi di inflazione sono prossimi allo zero. È noto che i lavoratori sono ostili a riduzioni del salario nominale, e questo elemento non è venuto meno nel corso della Grande Recessione: anzi, è una delle ragioni delle difficoltà dell'aggiustamento nell'Eurozona. È anche per questo motivo che l'inflazione si dimostra vischiosa, almeno verso il basso.

L'analisi preliminare delle alternative proposte nel già citato capitolo del World Economic Outlook giunge a tre conclusioni principali. La prima è che «le aspettative sono fortemente ancorate agli obbiettivi di inflazione fissati dalle Banche centrali, e non vengono influenzate in misura rilevante dai livelli di inflazione correnti». La seconda è che questo «ancoraggio» dell'inflazione attesa cresce con il passare del tempo, mentre diminuisce parallelamente l'impatto dell'inflazione corrente sull'inflazione attesa. La terza è che si attenua nella stessa misura anche la correlazione tra inflazione e tasso di disoccupazione corrente: questa correlazione è praticamente scomparsa dopo il 1995, quando è iniziato un lungo periodo di inflazione stabile in linea con gli obbiettivi di inflazione fissati dalle Banche centrali.

Il dettagliato lavoro econometrico a supporto di questa analisi preliminare evidenzia altri due punti. Uno, il più importante, è che al momento c'è una situazione di marcata disoccupazione congiunturale. Un altro, meno importante, è che l'impatto dell'inflazione globale sull'inflazione dei singoli Paesi non evidenzia nessuna tendenza chiara.

Un'analisi della situazione americana mostra la rilevanza di questi cambiamenti: se oggi la relazione fra ciclo economico e inflazione fosse com'era negli anni 70, il livello dei prezzi negli Stati Uniti sarebbe già in calo. Fortunatamente non è così, altrimenti i tassi di interesse reali sarebbero marcatamente positivi e la deflazione rappresenterebbe un pericolo molto maggiore per la stabilità degli Usa. Un aspetto incoraggiante è che l'esperienza del periodo di boom economico che ha preceduto la crisi finanziaria suggerisce che la vischiosità dell'inflazione non opera soltanto in un senso: anche allora la crescita dei prezzi rimaneva in linea con gli obbiettivi prefissati, in particolare per quanto riguarda Spagna e Regno Unito (vedi grafici).

Un'interessante conclusione finale emerge dal confronto fra la performance degli Stati Uniti e quella della Germania negli anni 70, il periodo in cui la Bundesbank ha consolidato la sua reputazione. Il successo della Banca centrale tedesca non derivava dal fatto che non commetteva mai errori, ma dal fatto che la gente era convinta che avrebbe fatto tutto il necessario per raggiungere il target. L'inflation targeting può essere flessibile, a patto che rimanga credibile.
Si tratta di un lavoro di analisi importante, con implicazioni di ampia portata per quel che riguarda le politiche economiche.
La prima è che gli inevitabili errori nello stimare il livello dell'arretramento dell'economia non pesano più di tanto se la gente conserva la certezza che le Banche centrali sono determinate a raggiungere i loro obbiettivi. È uno dei grandi benefici di una «curva di Phillips» piatta (la curva di Phillips è il rapporto fra disoccupazione congiunturale e inflazione).

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