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Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2013 alle ore 17:47.

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PITTSBURGH – Durante una visita recente in Grecia, il Presidente francese François Hollande ha dichiarato che il declino dell’Europa è giunto al termine e ha incoraggiato le aziende francesi ad investire in Grecia. Pessimo consiglio. E’ vero che i costi di produzione in Francia sono elevati, ma quelli della Grecia sono persino più alti. Inoltre, nonostante il consistente declino del PIL reale greco (e di quello italiano e spagnolo) sin dal 2007, il processo d’aggiustamento è ben lontano dall’essere completato.

In effetti, ci si troverebbe in seria difficoltà a dover concordare con l’affermazione di Hollande in qualunque parte d’Europa. Prima delle recenti elezioni in Italia, i mercati finanziari mostravano qualche segnale di ottimismo, incoraggiati da una politica della Banca Centrale Europea finalizzata a garantire il debito sovrano dei membri dell’eurozona, ad espandere il suo bilancio e ad abbassare i tassi d’interesse. Gli obbligazionisti guadagnano infatti quando i tassi di interesse si abbassano. Ma la disoccupazione continua a crescere nei paesi del sud dell’Europa già pesantemente indebitati, mentre la produzione continua a rimanere indietro rispetto alla Germania e ad altri paesi del nord Europa.

La ragione principale per questo ritardo non è semplicemente dovuta ad una riduzione della domanda o al debito consistente. C’è in realtà un’enorme differenza tra i costi del lavoro per unità di prodotto (stipendi reali aggiustati in base alla produttività) della Germania e dei paesi del sud dell’Europa altamente indebitati. All’inizio della crisi, i costi di produzione in Grecia erano più elevati di circa il 30% rispetto alla Germania, il che ha portato la Grecia a ridurre drasticamente le esportazioni e ad aumentare le importazioni. In altri paesi altamente indebitati i costi di produzione risultavano invece superiori del 20-25% rispetto a quelli della Germania.

La crescita non potrà riprendere finché non ci sarà una riduzione dei costi di produzione nei paesi indebitati, il che richiede o un aumento sostanziale permanente della produttività, o una riduzione degli stipendi reali, se non entrambe le cose. Le politiche di austerità hanno ridotto il numero dei lavoratori dipendenti, in particolar modo della manodopera e della produttività poco qualificata. Ma i profitti nella crescita di produttività misurata derivanti dall’austerità non rappresentano dei cambiamenti permanenti, e una gran parte delle riduzioni dei costi del lavoro per unità di produzione sono pertanto solo temporanei.

E’ pur vero che le principali differenze di costo sono rimaste tali. In Grecia, il settore privato si è trovato obbligato ad apportare delle modifiche, ma il governo non è riuscito a mantenere la promessa di ridurre l’occupazione nel settore pubblico. Ciò comporterà un prolungamento della spesa statale eccessiva e, di conseguenza, i target del deficit non potranno essere rispettati su base sostenibile. D’altra parte, le ampie riduzioni degli stipendi nel settore pubblico hanno ridotto il disavanzo primario, ma il mantenimento dell’occupazione continua a comportare una riduzione della produttività, un aumento dei costi ed un ritardo nell’implementazione delle misure di aggiustamento.

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