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Questo articolo è stato pubblicato il 13 maggio 2013 alle ore 16:16.

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Una soluzione che non funzionerà è che gli economisti giudichino a posteriori come saranno usate o mal utilizzate le loro idee nel dibattito pubblico e celare di conseguenza le loro dichiarazioni pubbliche. Reinhart e Rogoff avrebbero potuto, ad esempio, minimizzare i loro risultati per evitare che venissero mal utilizzati dai falchi del deficit. Ma sono pochi gli economisti sufficientemente avvezzi da sapere in modo chiaro cosa accadrà in politica.

Inoltre, quando gli economisti aggiustano il messaggio affinché si adatti al pubblico, il risultato è opposto alle aspettative: perdono rapidamente credibilità.

Prendiamo ad esempio ciò che accade nel commercio internazionale, dove un tale offuscamento di ricerca è una pratica consolidata. Per timore di permettere barbarie protezionistiche, gli economisti esperti di commercio sono disposti a ingigantire i vantaggi del commercio e minimizzare i costi distributivi o simili. In pratica, questo fa sì che le loro argomentazioni vengano catturate dai gruppi di interesse sul fronte opposto – multinazionali che tentano di manipolare le regole commerciali a proprio vantaggio. Di conseguenza, gli economisti vengono raramente considerati come onesti intermediari nel dibattito pubblico sulla globalizzazione .

Gli economisti dovrebbero però conciliare l’onestà sui contenuti delle loro ricerche con l’onestà sulla natura intrinsecamente provvisoria di ciò che viene considerata come prova nella loro categoria. L’economia, diversamente dalle scienze naturali, raramente dà risultati chiari e definiti. Da un lato, tutto il ragionamento economico è contestuale, e porta a tante conclusioni quante sono le potenziali circostanze del mondo reale. Tutte le proposizioni economiche denotano un comportamento condizionale del tipo if/then. Di conseguenza, stabilire quale rimedio funzioni meglio in un particolare ambiente è un’abilità più che una scienza.

In secondo luogo, le prove empiriche sono di rado abbastanza affidabili per risolvere in modo decisivo una controversia caratterizzata da un’opinione ampiamente dibattuta. Ciò vale soprattutto in macroeconomia, ovviamente, dove i dati sono pochi e aperti a diverse interpretazioni.

Ma persino in microeconomia, dove talvolta è possibile generare stime empiriche precise utilizzando la randomizzazione, i risultati devono essere estrapolati per essere applicati in altri ambienti. Le nuove prove economiche servono tutt’al più a spingere le visioni – un po’ qui e un po’ lì – di coloro che mostrano una maggiore apertura.

Nelle del capo economista della Banca mondiale, Kaushik Basu, Una cosa che gli esperti sanno e che i non-esperti non sanno è di sapere meno di quanto pensano di sapere i non-esperti. Le implicazioni vanno oltre il non lodare esageratamente qualsiasi particolare risultato di ricerca. Giornalisti, politici e opinione pubblica hanno la tendenza ad attribuire maggiore autorità e precisione a ciò che gli economisti dicono rispetto a ciò con cui gli economisti dovrebbero realmente sentirsi a loro agio. Purtroppo gli economisti solo di rado sono umili, soprattutto in pubblico.

C’è un’altra cosa che il pubblico dovrebbero sapere su di loro: è la bravura, e non la saggezza, a far avanzare la carriera degli economisti accademici. Oggi i professori delle migliori università si distinguono non per il fatto di sapere tutto del mondo reale ma per la capacità di concepire variazioni teoriche ingegnose o di sviluppare nuove prove. Il fatto che poi tali abilità possano renderli anche osservatori percettivi della società reale e fornire loro giudizi validi, è tutt’altro che intenzionale.

Traduzione di Simona Polverino

Dani Rodrik, professore di economia politica internazionale all’Università di Harvard, è autore del libro Il paradosso della globalizzazione. La democrazia e il futuro dell’economia mondiale.

Copyright: Project Syndicate, 2013.

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