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Questo articolo è stato pubblicato il 26 maggio 2013 alle ore 13:21.

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Il 16 maggio il Financial Times ha pubblicato un interessante articolo sui problemi legati al calcolo del prodotto nazionale lordo (non il prodotto interno lordo) irlandese. In sostanza, il reddito misurato è gonfiato da quelle aziende che non svolgono nessuna attività concreta in Irlanda, ma che riescono comunque a trovare il modo per far materializzare profitti in una giurisdizione fiscalmente conveniente. Che stesse succedendo qualcosa del genere più o meno lo sapevamo: sapevamo per esempio gran parte dell'apparente aumento della produttività era dovuto semplicemente al passaggio a compagnie farmaceutiche che contribuiscono in misura molto limitata all'economia irlandese. Ma un nuovo rapporto dell'Esri, l'Istituto di ricerca economica e sociale del Governo irlandese, sembra indicare che il problema è più grande di quanto si credesse.

Questo passaggio dell'articolo del Financial Times mi ha particolarmente colpito: «La ricerca dell'Esri solleva interrogativi sulla solidità della ripresa irlandese, che ha sorpreso molti osservatori stranieri considerando la grave crisi economica sofferta dal Paese nel 2008».

Chi sono questi osservatori stranieri sorpresi? L'impressione che ho io è che l'Irlanda è stata ripetutamente sbandierata come esempio di successo, salvo ogni volta scontrarsi impietosamente con i fatti. E se guardiamo i dati sull'occupazione, che non sono condizionati da queste sottigliezze contabili, si vede chiaramente quanto sia solida la "ripresa" irlandese.

I sadomonetaristi di Basilea
Questo mese il Wall Street Journal ha richiamato l'attenzione su un discorso di Jaime Caruana, il direttore generale della Banca dei regolamenti internazionali, che metteva in guardia dai pericoli del denaro facile ed esortava ad alzare subito i tassi per evitare… non si sa bene cosa.

E le sue opinioni pesano, secondo il Wall Street Journal: «Caruana non è un falco scornato che è stato messo in minoranza nel consiglio direttivo di un organismo economico e cerca disperatamente di mettere le cose in chiaro», ha scritto Geoffrey Smith sull'edizione online. «Caruana è il portavoce di un consesso globale di banchieri centrali, quasi tutti costretti a far fronte alle pressioni fortissime dei rispettivi Governi nazionali perché tengano i piedi la baracca mentre loro cercano di riparare l'economia. Le sue opinioni contano anche per un'altra ragione: la Bri è una delle poche istituzioni finanziarie internazionali (secondo qualcuno l'unica) che ha visto arrivare la crisi finanziaria e ha lanciato avvertimenti chiari per tempo».

Davvero la Bri è stata così preveggente? Vediamo un po': quello che ricordo io - e che il Wall Street Journal apparentemente non ricorda - è che da anni la Bri mette in guardia dai pericoli dei tassi di interesse bassi. Peccato che un paio di anni fa raccontasse una storia completamente diversa sul perché dovevamo alzare i tassi: il grande pericolo allora era l'inflazione imminente. Un articolo di Bloomberg del 27 giugno 2011 diceva: «Le pressioni inflazionistiche a livello globale stanno aumentando rapidamente, per via dell'impennata dei prezzi delle materie prime e dei limiti di capacità produttiva che frenano la ripresa globale», ha detto la Bri, l'organismo che svolge il ruolo di Banca centrale delle Banche centrali. L'accresciuto rischio di inflazione impone un aumento dei tassi di riferimento».

In realtà l'inflazione viaggia al di sotto del target praticamente ovunque.
Verrebbe spontaneo aspettarsi, a questo punto, che la Bri faccia marcia indietro e riveda le sue raccomandazioni di politica economica e i criteri che usa per estrapolarle. Sì, figuriamoci.
I tassi alti sono sempre la soluzione: quello che cambia è soltanto il problema che dovrebbero risolvere.

© 2013 The New York Times
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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