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Questo articolo è stato pubblicato il 24 luglio 2013 alle ore 07:38.

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Meno innovazione, più disuguaglianza

Una delle cause delle enormi disuguaglianze sociali in America è il dinamismo che ha reso così remunerativa l'attività economica. Un'economia aperta a nuovi principi e nuove iniziative è per sua stessa natura destinata a generare redditi diversi. Tassare tutti quei redditi vorrebbe dire ostacolare le prospettive di successo di cui molti imprenditori hanno bisogno, se hanno veramente voglia di dare vita a iniziative ambiziose. E farlo sarebbe quindi un grosso errore. Un grosso errore sarebbe anche interpretare in modo sbagliato il rapporto che esiste tra disuguaglianza sociale e innovazione. Negli ultimi decenni è stata la minore innovazione – e non la maggiore – ad aver esasperato le disuguaglianze negli Stati Uniti.

Per l'America gli anni del picco dell'innovazione locale sono andati dagli anni Venti dell'Ottocento agli anni Sessanta del Novecento. Ci fu qualche caso di panico finanziario e ci furono anche due depressioni, certo. Tuttavia, in quel periodo l'impazienza nelle attività creative, la concorrenza economica e la rapida impennata nelle entrate della nazione garantirono un'inclusione economica maggiore, stipendi più alti per tutti e carriere soddisfacenti per la maggior parte della popolazione. Le innovazioni fornirono ai lavoratori migliori strumenti per lavorare, migliori prodotti ai quali dar vita, e tutto ciò aumentò di conseguenza i loro salari. Poi, però, questa innovazione iniziò a recedere, e a ritirarsi per lo più in una zona specifica lungo la West Coast. All'inizio degli anni Settanta, il tasso di innovazione locale (misurato in base al suo presunto tasso di crescita nella produttività lavorativa) calò di circa la metà – assestandosi da allora in poi all'uno per cento circa rispetto al due per cento che era in precedenza.

L'economista Robert J. Gordon ha esaminato questo rallentamento dell'innovazione, che egli colloca alla fine di grandi svolte significative. È mia opinione che l'innovazione sia sensibilmente ridotta nei processi di tutti i giorni che le imprese tentavano di rabberciare in modo incrementale allorché cercarono di diventare più produttive nel tempo. Questo declino dell'innovazione, trasversale a molteplici settori – con ragguardevoli eccezioni come la Silicon Valley, le biotecnologie e l'energia pulita – ha rallentato buona parte dei precedenti aumenti di produttività della storia americana.
Oltretutto il rallentamento dell'innovazione costrinse a un'ampia svalutazione degli asset delle imprese, dipendenti inclusi. Ne seguirono tagli agli stipendi e minori assunzioni, specialmente nell'industria pesante dei capital good. Di conseguenza, i salari dei lavoratori dei più bassi gradini della scala sociale rallentarono più di quelli di coloro che erano più in alto, e il divario tra la loro crescita si pareggiò soltanto negli anni Novanta.

I tassi di disoccupazione tendono a salire e a scendere in proporzioni più o meno uguali per qualsiasi gradino della scala sociale, e ciò accadde tra il 1973 e il 1985. (In quello stesso lasso di tempo l'indice di disoccupazione tra i lavoratori maschi bianchi passò dal 4,3 al 6,2 per cento e tra gli uomini di colore dal 9,4 al 15,1 per cento.) Ma l'aumento della disoccupazione ebbe conseguenze più complesse per chi era in basso nella scala sociale, dato che la loro precarietà economica era già molto più alta fin dall'inizio. Questo è il nocciolo della storia delle diseguaglianze sociali.

Il divario tra i meno avvantaggiati e i più fortunati si andò allargando a mano a mano che aumentò la distanza tra i diplomati della scuola superiore e chi abbandonava gli studi da una parte e gli americani con diplomi del college e con la laurea dall'altra. Molti dei più benestanti poterono scegliere di andare in pensione contando sulle proprie risorse economiche, ma tra i meno avvantaggiati poté farlo un numero minore di persone. Non stupisce quindi il fatto che tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta il tasso di partecipazione alla forza lavoro degli uomini bianchi – che per altro erano già relativamente avvantaggiati - calò, mentre al contrario il tasso di partecipazione alla forza lavoro degli uomini di colore o latinoamericani non calò. (L'aumento dei tassi della partecipazione femminile alla forza lavoro, bianca e non bianca, è tutta un'altra storia.)

L'ineguaglianza sulla quale si appunta di recente sempre più l'attenzione è diversa per estensione, ma non per tipologia. Nel mio libro del 1977 "Rewarding Work: How to Restore Participation and Self-Support to Free Enterprise" ho scritto che i salari scesero alla metà dell'erogazione del reddito – "approssimativamente in corrispondenza dello spartiacque tra la classe operaia e la middle classe" – relativa ai benestanti.
In poche parole, c'è stato un sempre maggiore divario tra la fascia media della popolazione e quella in cima alla scala sociale sia in termini di occupazione sia di salario. Questa "decompressione", come è definita da alcuni economisti, iniziò ad ampliarsi con il ritorno, verso il 2004, di una innovazione insufficiente e di una lenta crescita che hanno afflitto l'economia sin dagli anni Settanta fino a qualche breve dilazione offerta dal boom di internet, iniziato alla metà degli anni Novanta.

I policymaker sono alle prese con una questione precisa: quali misure prendere. Si è fatto un gran chiasso per investire nelle infrastrutture. I sostenitori di queste ultime tra le imprese e il governo affermano che questi progetti creerebbero più posti di lavoro per tutto il tempo della loro durata e lascerebbero più alta la produttività alla fine, anche se forse non così alta da rastrellare entrate sufficienti a coprirne i costi. L'impatto sui posti di lavoro sul breve periodo è evidente. Gli economisti stanno analizzando le informazioni per documentare in che modo città e stati abbiano ottenuto considerevoli guadagni nella produttività dai rispettivi progetti di capitale. A prescindere da quale risultato otterranno, il dibattito pare non aver tenuto conto che il governo dovrà continuare a finanziare nuovi progetti, una volta che quelli in corso saranno stati portati a conclusione. Una simile interminabile serie di progetti nel settore edilizio non è una soluzione per fermare il calo del dinamismo al quale – in buona parte, se non interamente - è imputabile il rallentamento dell'innovazione.

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