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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2013 alle ore 16:17.

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VARSAVIA – Negli ultimi sessant’anni, il progetto d’integrazione europea si è trovato di fronte a diverse sfide: le difficoltà economiche del dopoguerra, il peso del comunismo e le prospettive incerte del mondo nel periodo successivo alla guerra fredda. Ma se da un lato questo progetto ha superato tutti questi ostacoli arrivando ad un’Unione europea costituita da 28 stati, molti dei quali hanno adesso una valuta comune, dall’altro l’UE ha di fronte un’altra sfida importante, ovvero quella di ridurre il peso della regolamentazione che opprime le principali industrie.

Il business europeo è vincolato da norme e regolamentazioni, molte delle quali definite da funzionari di Bruxelles che non sono stati eletti, la cui encomiabile intenzione di armonizzare le condizioni del business a livello UE sta invece ostacolando la creatività commerciale ed il dinamismo del continente. Di conseguenza, la prestazione economica è ormai rallentata di pari passo al declino della competitività e al costante tasso elevato di disoccupazione, in particolar modo tra i giovani.

Le istituzioni UE emanano centinaia di regolamenti, direttive e decisioni ogni anno. Nel 2012, sono state emanate 1.799 leggi, e 2.062 nel 2011. Alcune leggi approvate diverso tempo fa per una Comunità europea di sei stati membri fondatori sono tuttora in vigore. Ed è proprio questa coltre burocratica che ostacola il business e scoraggia gli imprenditori.

Un piccolo, ma importante, esempio è il costo medio dell’avvio di un’impresa che è pari a 158 euro (212 dollari) in Canada, 664 euro negli Stati Uniti, e 2,285 euro nell’UE (per arrivare fino a 4,141 euro in Italia). Anche il solo costo di avvio di un’impresa è un forte deterrente, come si può facilmente immaginare, per un giovane imprenditore che cerca di sfuggire alle costrizioni della disoccupazione.

L’industria europea è afflitta da problemi simili. Il settore petrolchimico e della raffinazione fornisce all’UE un’ampia proporzione del suo carburante ed è anche un’importante fonte di gettito fiscale. Il settore downstream, assieme alla distribuzione di carburante, dà un contributo pari a 240 miliardi di euro su base annua alla casse del Tesoro. Si tratta quindi di un’industria importante che non dovrebbe essere oberata da troppe normative. Ma se da un lato l’industria deve affrontare la minaccia dell’aumento dei prezzi del gas in tutto il mondo, dall’altro le sue preoccupazioni a livello nazionale sono l’abnormità delle normative UE e nazionali sul settore energetico.

L’eccessiva legiferazione ha portato all’aumento dei prezzi e ha allontanato gli investitori non solo dal settore petrolchimico e della raffinazione, ma da tutti i settori ad uso intensivo di energia, compreso l’alluminio, l’acciaio ed il cemento. In alcuni stati UE, i prezzi dell’energia elettrica per i clienti industriali sono pari al doppio dei costi per gli omologhi nordamericani. Delle norme eccessivamente complicate sul clima, la resistenza da parte della politica allo sviluppo del gas shale e delle politiche energetiche che favoriscono tecnologie costose e inefficienti sono i principali fattori responsabili.

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