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Questo articolo è stato pubblicato il 11 novembre 2013 alle ore 19:17.

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Nella foto il regista di Sorrow and Joy, Nils Malmros (al centro) con gli attori protagonisti Helle Fagralid e Jakob Cedergren (AP Photo)Nella foto il regista di Sorrow and Joy, Nils Malmros (al centro) con gli attori protagonisti Helle Fagralid e Jakob Cedergren (AP Photo)

Sorrow and Joy è uno di quei film che ti schiaffeggiano e ti spiazzano. Capita poche volte nella vita di uno spettatore e di un critico l'occasione di vedere una storia così dura e autobiografica, una tragedia raccontata dal suo protagonista, senza mediazioni.
Difficile, quindi, schiodarsi dalla poltrona: l'accordo tra il cineasta e chi lo guarda è troppo profondo per essere tradito, la sua apertura verso il pubblico merita attenzione. E così tutto passa in secondo piano, anche il fatto che la qualità cinematografica di questa pellicola danese presente nel Concorso Internazionale sia sostanzialmente mediocre.
Nils racconta il periodo più difficile della sua vita, quello in cui la moglie Signe, fin da adolescente instabile psicologicamente, pone fine alla vita della piccola figlia Maria. Una tragedia enorme e inspiegabile, che lui spiega dalla sua parte, attirando a sé e alla suocera anaffettiva e superficiale le colpe, presentando la moglie come una vittima e, nonostante tutto, come una donna che lui non ha mai smesso di amare. E si mette a nudo l'autore, persino nei processi di sublimazione che non nasconde nella sua ambiguità, per quella quindicenne bellissima (Maya Dybboe) che è uno dei pensieri ossessivi, e forse dei detonatori delle psicosi della moglie. E anche qua Malmros mischia realtà e finzione, perché l'incantevole Maya ha vissuto sul set un'esperienza simile a quella del suo personaggio, tra ingenuità, inconsapevolezza e malizia.

Bravo, senza dubbio, il protagonista Jakob Cedergren, che si fa carico del compito più difficile, interpretare colui che lo dirigeva, nella mancata certezza, ma con il fondato dubbio che fosse proprio autobiografico il film. E alla fine questa situazione speciale ha reso più uniti e responsabili gli interpreti, così che lui e Helle Fagralid – che è Signe – hanno passato molto tempo insieme, per diventare una coppia davvero unica al mondo, in cui un amore grande, strano, potente sconfigge il dolore più assurdo, lacerante e insopportabile. Già perché a livello narrativo Malstrom sa presentarci la sua vicenda con autocritica e persino con ironia, descrive i suoi difetti con lucida, quasi atarassica precisione, racconta aneddoti piccoli e grandi con la stessa intensità emotiva e retorica. E persino il suo lavoro, che inevitabilmente qui si risolve in scene metacinematografiche, viene trattato senza enfasi, anzi quasi banalizzato nelle immagini, sempre alla ricerca di poche, fortissime emozioni. Per questa forte carica etica e sentimentale dispiace che invece l'estetica e la qualità artistica del film siano così basse, che il racconto visivo sia così poco avvincente, che la regia non abbia guizzi, non segua il coraggio che c'è voluto per mostrarsi al mondo così.
Ma forse era inevitabile. Tirar fuori quel dolore che nel 1984 gli cambiò la vita deve averlo svuotato. E solo porlo nel modo giusto dev'essere costato al cineasta danese una fatica titanica. Di quell'estetica cinematografica che in passato l'aveva portato lontano dai suoi affetti più veri, semplicemente non ne voleva sapere nulla. Voleva solo chiudere un cerchio, un capitolo, l'ultimo, della sua autobiografia per immagini. Lo ha ammesso oggi, in conferenza stampa: in ognuno dei suoi 11 film c'è un pezzo della sua esistenza.

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