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Questo articolo è stato pubblicato il 16 novembre 2013 alle ore 17:45.

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Un'immagine del film "Ritratti abusivi"Un'immagine del film "Ritratti abusivi"

Ci siamo asciguati qualche lacrima con Massimo Troisi, con Il mio cinema secondo me di Raffaele Verzillo. Riscoprirlo, dopo tanti anni (lo farà anche e di più il Festival di Bari di Felice Laudadio, il BiF&st nel 2014, rendendolo protagonista della sua prossima edizione), lascia ancora un enorme senso di vuoto, di perdita, di rabbia per qualcosa di straordinario e artisticamente fertile che ci è stato tolto troppo violentemente. L'attore e regista, peraltro, è simbolo di una Napoli complementare a quella arrabbiata e dimenticata che Gaetano Di Vaio, da produttore, ha portato al Festival di Roma con Ritratti abusivi, un documentario incredibile e sconcertante, nella sua terribile bellezza. Parco Saraceno è un luogo fantasma, un ghetto moderno e il regista Romano Montesarchio ce lo mostra in questa sua natura assurda e verissima di avamposto di confine. Parco Saraceno non esiste per il resto del mondo, è una periferia troppo estrema per avere la nostra attenzione: non c'è lavoro, né vivibilità, non ha neanche un futuro.

Verrà distrutto, infatti, per costruire un porto. Romano, come si andrebbe a Gaza, va lì a vedere come una comunità esclusa viva secondo le proprie regole (illegali), i propri tempi, i propri spazi. Ne viene fuori uno sguardo cinematografico lucidissimo che di questo pugno di chilometri quadrati intuisce lo squallore materiale, la rabbiosa disperazione umana e persino una spiritualità particolarissima. Difficile non solo recensirlo Ritratti abusivi, ma anche solo raccontarlo: finirci dentro è un'esperienza quasi (meta)fisica.
Ancora dall'Italia viene Il venditore di medicine. E anche qui non si cerca la "solita" strada comoda di una narrazione borghese e tranquillizzante, tipica di un certo cinema italiano, ma quella di una amoralità difficile da sopportare, della quotidianità di chi è l'ingranaggio di un'industria come quella farmaceutica che lucra sulla salute altrui. Antonio Morabito questa sgradevolezza la trasporta nell'immagine e in un cast che, da Claudio Santamaria a Ignazio Oliva, da Giorgio Gobbi a Evita Ciri, lo segue in un sentiero stretto e difficile, ma che sa portarli dove vogliono.

Già, perché quell'informatore medico al limite dell'esaurimento nervoso in famiglia e "normalmente" cinico sul lavoro, quei medici che si fanno corrompere con poco per prendere farmaci inutili, quel paziente invisibile e sempre vittima fanno parte della nostra vita. E di un film che ha il coraggio, anche grazie a una bella sceneggiatura di Michele Pellegrini e Amedeo Pagani, di dirci qualcosa su una lobby e una parte della nostra società che ignoriamo. E che narrativamente è difficile da rendere avvincente.
Chiudiamo con Se chiudo gli occhi del sempre capace Vittorio Moroni. Anche qui troviamo un ottimo Ignazio Oliva (nonché un Beppe Fiorello libero dai clichè televisivi), anche qui c'è un disagio. Diverso da quelli appena descritti, perché si riferisce a un'età difficile, l'adolescenza.

Vissuta in una comunità proprio in questi giorni devastata da una tragedia incredibile, quella filippina. Lo stile e la delicatezza di Moroni sono i soliti, forse l'originalità non è la stessa (da Tu devi essere il lupo a Eva e Adamo c'era più sperimentazione e uno sguardo più "obliquo"), ma è affascinante la struttura a matrioska della sceneggiatura, in cui i grandi temi – la solitudine dell'uomo nel mondo, la redenzione – si allacciano a quelli più attuali, dal disagio giovanile al lavoro. Un tuffo dentro un mondo difficile come il nostro attraverso gli occhi di chi è sempre costretto a stare nelle retrovie ma non rinuncia a vivere. E che quegli occhi, appunto, non li chiude.
E allora ci perdonerà Tsui Hark se non abbiamo parlato dell'evento di questa giornata, il suo Detective Dee, gioco kolossal di cinema fatto di effetti speciali e battaglie uniche. Quello lo vedrete presto, di sicuro, in sala: il cinema italiano che vi abbiamo raccontato avrà molte più difficoltà ad arrivare al pubblico. E, fidatevi, è un peccato.

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