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Finanza e Mercati In primo piano

Se un mattino l'euro arriverà a 1,5 dollari... Fantascenari (possibili) sulla guerra delle valute

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Questo articolo è stato pubblicato il 16 ottobre 2010 alle ore 09:48.

A Malpensa il cielo stamattina è piuttosto imbronciato, in tono con la stagione autunnale. Oggi è giovedì 25 novembre 2010 e il signor Rossi non si cura proprio della pioggerellina che bagna la pista dell'aeroporto: sta tranquillamente attendendo l'imbarco del volo Az 604 che in otto ore lo porterà dall'altra parte dell'Oceano, destinazione New York.

I cittadini della Grande Mela stanno festeggiando il Thanksgiving, la festa più tradizionale per gli Stati Uniti, che di solito dà anche il via alla stagione dello shopping natalizio: i negozi si addobbano a festa e abbassano i prezzi per invogliare i consumatori. Le vetrine espongono cartelli da -30, -40, -50 per cento. Da noi lo fanno dopo il Natale, là molto prima e i risultati si vedono, perché nel periodo che precede il 25 dicembre i venditori al dettaglio Usa realizzano il 40% del fatturato dell'intero anno.

Il signor Rossi pregusta già una bella passeggiata sulla Quinta Strada, magari soltanto per guardare la vetrina di Tiffany e di altri negozi di lusso. O forse anche per acquistare qualche regalo da riportare in Italia. Visti gli sconti, non si sa mai. E poi c'è anche l'euro a invogliare: proprio ieri ha raggiunto 1,50 dollari come non accadeva dall'estate di due anni fa e per gli esperti potrebbe salire ancora. Fare affari a New York è un gioco da ragazzi, proprio come approfittare di un'offerta 3x2 al supermercato.

Basta allontanarsi di qualche chilometro dall'aeroporto per trovare un'atmosfera ben differente. Al primo piano della palazzina che sta accanto alla fabbrica di famiglia, il commendator Bianchi legge sul giornale quell'1,50 e non è proprio contento. La sua azienda produce macchinari per imballaggio, che esporta in tutto il mondo: in Europa, Germania soprattutto, ma anche negli Stati Uniti. Nei primi nove mesi del 2010 il fatturato è cresciuto, anche perché è aumentato del 15% l'export. Ma quelli erano mesi più facili, si parlava di ripresa e tutti erano tornati a spendere. E poi c'era l'euro in picchiata a rendere più competitive le merci da vendere fuori dal Vecchio Continente.

Adesso la situazione si è completamente ribaltata: a Washington la Federal Reserve sta di nuovo pompando liquidità nel sistema per cercare di rianimare la crescita Usa ed evitare una nuova recessione. Difficile, con questi chiardiluna, che le aziende a stelle e strisce decidano di investire in nuovi macchinari. E se poi dovessero farlo, c'è sempre questo euro senza freni a rendere i suoi prodotti più cari. Il commendator Bianchi calcola a spanne: da settembre la moneta europea si è apprezzata di quasi il 20% nei confronti del dollaro. Se dovesse continuare così le esportazioni potrebbero diminuire anche del 5-6 per cento. Magari non immediatamente, ma di sicuro lo faranno nei prossimi trimestri. I conti esatti andranno fatti nel 2011 e forse purtroppo anche nel 2012.

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Il commendator Bianchi si rincuora però quando pensa non tanto che materie prime ed energia, il cui costo è espresso in dollari, potrebbero anche risultare meno care per chi produce in Europa, ma che la qualità dei suoi macchinari è riconosciuta in tutto il mondo. In fin dei conti le aziende degli Stati Uniti potrebbero preferirli ugualmente, anche se più cari, a quelli assemblati in una fabbrica del North Carolina o addirittura in Asia. Bianchi benedice quel denaro speso negli anni passati, in tempi di vacche grasse, per investire nella ricerca.

Come lui hanno fatto molte imprese, soprattutto del settore della meccanica di precisione: chi costruisce macchine per la lavorazione dei metalli, per il packaging o per l'imbottigliamento. Fosse arrivato qualche anno fa, questo supereuro, avrebbero sofferto molto di più, mentre adesso la qualità del prodotto le rende meno sensibili alle bizze dei cambi. Non altrettanto può dire chi produce beni di consumo dove il valore aggiunto è inferiore e la concorrenza molto più agguerrita. Per tessile o abbigliamento, per esempio, potranno esserci tempi duri, a meno che non si tratti di marchi ben conosciuti in tutto il mondo.

Ma la maggior consolazione Bianchi la ha quando guarda il mappamondo alle sue spalle perché i clienti, indicati da tanti spilli colorati, non sono soltanto negli Stati Uniti: sono sparsi ovunque, dall'estremo oriente al Brasile. E rispetto allo yen, al won coreano, al dollaro di Singapore, a quello di Taiwan e al real brasiliano l'euro non si è apprezzato poi così tanto. Anzi, in alcuni casi si è perfino deprezzato e la competitività è quindi salva. Si chiama delocalizzazione (dei mercati però, non della produzione) ed è la ricetta migliore per limitare l'effetto cambio. I tedeschi, in questo campo, sono i maestri. Non per niente, pur essendo il secondo paese esportatore al mondo superata dalla sola Cina, la Germania è meno sensibile rispetto ai partner europei al mini-dollaro. Una riprova, se mai se ne sentisse il bisogno, che di euro forte non si muore.

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