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Dopo Tunisia ed Egitto sarà la volta di Pakistan e Nigeria? Ecco la mappa dei paesi a rischio

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2011 alle ore 09:30.

«Il mio bilancio famigliare è in rovina». Più che gli economisti è Majeedan Begum, 35enne pakistana madre di cinque figli, a spiegare cosa sta mettendo in ginocchio la sua e milioni di altre famiglie: il rincaro dei beni alimentari. In Pakistan si spende mediamente il 47% del reddito per comprare cibo, per cui ogni aumento dei prezzi alimentari stritola famiglie intere. Questo Majeedan Begum lo sa bene. E conosce anche la crisi politica. Quello che la 35enne mamma pakistana forse non sa, è che nel suo paese potrebbe arrivare l'onda lunga della crisi egiziana. Secondo un indice creato dal «Sole-24 Ore», con la collaborazione della Sace, il Pakistan ha infatti caratteristiche in molti casi simili a quelle del paese nordafricano.

In posizione peggiore, secondo questo indice, c'è solo la Nigeria. E in situazioni potenzialmente critiche ci sono anche Siria, Madagascar, Sri Lanka, Honduras, Nicaragua e Vietnam. Se siano questi i possibili nuovi focolai di crisi economico-politico-sociale è difficile dirlo, ma di certo questi stati hanno tutte le caratteristiche per esserlo.

La prima crisi globale, con Internet come amplificatore di notizie
Ormai è evidente che la crisi sia diversa da quelle del passato. È la prima globale, con Stati Uniti ed Europa contemporaneamente in affanno tanto quanto i paesi più poveri. È la prima crisi in cui la finanza, che si è rivelata un volano per il contagio, svolge un ruolo così determinante. Per di più è la prima volta che Internet, ormai usato dal 28% della popolazione mondiale con un aumento del 445% rispetto al 2000, svolge un ruolo di trasmissione delle notizie e dunque di benzina sul fuoco delle rivolte. Insomma: di carestie e di sommosse è piena la storia, ma questa volta il connubio tra crisi economica e politica si fonde con elementi nuovi – tecnologici e finanziari – che esasperano i problemi. E che rendono il futuro imprevedibile. Ecco perché «Il Sole 24 Ore», con un indicatore creato ad hoc, cerca di disegnare una mappa dei paesi a rischio di sommossa. L'indice va infatti a monitorare, paese per paese, otto diversi elementi chiave: dal peso della spesa alimentare alla diffusione di Internet, dalla disoccupazione giovanile alla corruzione dei governi, dalla violenza politica all'efficienza delle istituzioni, dall'inflazione all'indice di sviluppo umano.

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Dai subprime all'Egitto
Il primo elemento inedito di questa crisi è proprio il suo carattere globale. Il fatto che in panne ci siano anche Stati Uniti ed Europa, ha spinto entrambi i paesi a portare contemporaneamente i tassi d'interesse ai minimi storici. In America la Federal Reserve sta anche stampando dollari, con un meccanismo chiamato quantitative easing. Se da un lato le Autorità statunitensi ed europee sperano di risollevare le sorti dei loro paesi, dall'altro stanno però creando non pochi problemi in giro per il mondo. Il quantitative easing, per esempio, ha avuto l'effetto "collaterale" di deprezzare il dollaro e di rincarare le monete di molti paesi emergenti: il che solleva le esportazioni americane, ma – piccolo particolare – taglia le gambe a quelle di molti altri paesi.

Non solo. Il denaro a costo zero facilita le speculazioni finanziarie: per le grandi banche e i fondi è un gioco da ragazzi prendere a prestito soldi in America (pagando tassi irrisori) per poi investire dove i guadagni sono più elevati. Questo giochetto, che gli addetti ai lavori chiamano carry trade, regala soddisfazioni ai bilanci delle banche. Ma, per contro, va a gonfiare le quotazioni di molte obbligazioni e azioni dei paesi emergenti (contribuendo al rialzo delle loro valute) e anche quelle delle materie prime. Ovvio che il rincaro dei beni alimentari non sia dovuto solo alle speculazioni, ma queste ultime sono certamente un'aggravante. Insomma: i paesi occidentali, per togliere le uova dal loro paniere, le rompono altrove.

Se il pane costa di più
I prezzi di grano, riso e altri beni alimentari continuano dunque a rincarare, tanto che l'indice dei prezzi alimentari calcolato dalla Fao registra un aumento del 160% dal 2009. Questo arricchisce le multinazionali, ma affama milioni di persone. Secondo i calcoli dell'United States Department of Agricolture, in Vietnam le famiglie spendono il 65% del loro reddito per comprare beni alimentari. In Sri Lanka il 64%, in Madagascar il 66%, in Nigeria addirittura il 73%. Più vicino a casa nostra, anche le famiglie albanesi non se la passano bene: spendono quasi il 70% del loro budget per comprare da mangiare. Ovvio che anche un rialzo di un punto percentuale dell'inflazione metta queste famiglie sul lastrico. Si pensi allora che effetto possa avere in Pakistan un'inflazione al 13,9% (vicina all'11,40% dell'Egitto), in Vietnam del 9,2%, in Ucraina del 9,4%, in Albania del 3,8%. La fame è ovvia. La collera anche.
Bene inteso: questo fenomeno è vecchio come il mondo. E infatti le rivolte per il prezzo del pane hanno segnato la storia. Ma oggi ci sono elementi nuovi, che rendono il rischio di ribellione più elevato e più contagioso di un tempo. Un tempo, per esempio, non esisteva Internet. Ma ora c'è: in Tunisia ed Egitto è stato usato per veicolare i temi della protesta. Non è un forse un caso che le rivolte siano scoppiate nei due paesi nordafricani, dove il Web è abbastanza diffuso: secondo i dati di Internet World Stats, in Egitto si collega il 21% della popolazione e in Tunisia il 34%. Possibile che – in situazioni di stress economico e politico – la grande rete possa facilitare proteste anche in Albania (dove è diffusa tra il 43,5% della popolazione), in Giordania (27%), Ucraina (33%), Vietnam (27,5%) o Thailandia (26%)? Possibile che Majeedan Begum, la 35enne madre di 5 figli, in Pakistan legga cosa accade in Egitto e decida di protestare per gli stessi motivi?

Nuovi focolai s'accendono
Ecco, allora, che in un mondo sempre più globale anche le rivolte diventano globali. Iniziano in Tunisia, toccano l'Algeria, stravolgono l'Egitto, spaventano la Giordania e – in futuro – potrebbero passare in Asia o in America Latina. Il Vietnam ha un'elevata incidenza della spesa per alimenti (come l'Albania e lo Sri Lanka), un'alta inflazione, una bassa occupazione giovanile, ma un medio livello di violenza politica. In Pakistan la violenza è al top – secondo il rating Sace –, ma la spesa per alimenti più limitata. Cosa pesi di più è difficile stabilirlo. Certo è che entrambi i paesi hanno forti elementi di instabilità simili a quelli egiziani.
Poi, in un mondo globalizzato, anche le conseguenze dei focolai sono globali. Così se l'Egitto è in sommossa, soffrono le banche dei paesi occidentali che sono esposte per 49 miliardi di dollari sul paese nordafricano. Se in rivolta finiscono altri paesi, altre banche o imprese pagano il conto. La crisi, nata tra anni fa dai mutui subprime americani, continua a cambiare faccia e a contagiare in lungo e in largo il mondo.

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