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Questo articolo è stato pubblicato il 11 febbraio 2011 alle ore 16:35.
Tempo di grandi matrimoni e grandi manovre per future fusioni tra le Borse del Nord e del Sud del mondo. Ma è anche tempo di rotte innovative per le quotazioni dei grandi gruppi occidentali: dopo Prada anche Samsonite entrerà nel listino di Hong Kong, gigante finanziario con i suoi 25 miliardi di capitalizzazione. Ed è tempo di progetti ambiziosi per un'altra piazza a crescita accelerata: Shanghai, destinata dai Signori di Pechino a diventare entro il 2020 la più grande piazza finanziaria asiatica in grado di competere con i futuri protagonisti del resto del mondo, più muscolosi e agguerriti. Tre le tappe sancite dai pragmatici governanti cinesi: la più grande Borsa asiatica entro il 2013; un ruolo accresciuto nel sistema finanziario globale entro il 2016; una competizione vincente con i centri globali entro il 2020.
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Ambizioni in linea con il ritrovato orgoglio nazionalista cinese, che non hanno fatto i conti con le strategie “gigantiste” delle altre piazze azionarie? No. È la foto, anche sul piano finanziario, del possibile approdo di quella transizione globale che ridefinirà gli equilibri mondiali entro i prossimi dieci anni. L’Asia ne è l’epicentro. Ma anche altri continenti in marcia, dal Sudamerica all’Africa, sono destinati a giocare la loro partita. Una “rivoluzione” che non è storia di oggi, ma che troppo spesso nello scorso decennio non è stata percepita nella sua entità da governi e opinioni pubbliche dei paesi industrialmente avanzati, Stati Uniti inclusi. Gli stessi che oggi restano spiazzati dai fatti d’Egitto o Tunisia, e dalla possibilità che il nuovo mondo arabo del Terzo millennio possa affrancarsi dalla dipendenza politica e finanziaria dell’Occidente e guardare a Cina e India come interlocutori e partner laici del futuro. Uno scenario che, ad esempio, è emerso chiaramente dai lavori del recente convegno Ispi e Fondazione Corriere della Sera dedicato alla transizione globale in corso, al potenziale declino di Usa ed Europa e all’avanzata dei nuovi protagonisti del Sud del mondo.
Il magnete economico asiatico non potrà infatti non essere anche politico. E non solo per i tassi di sviluppo che il mondo industriale tradizionale ormai non conosce più da anni (+8,2% nel 2010 secondo Asian Development Bank). Ma per la vitalità di delle economie d’Oriente, basata su continui aumenti di produttività, dati demografici favorevoli, aumento dei redditi pro capite e domanda interna a crescita rapida. Vitalità di cui sono testimonianza anche gli ultimi dati di Citigroup sul fronte M&A: per l’Asia il 2011 sarà un anno di boom per le transazioni domestiche ed intra-regionali dopo un 2010 che ha registrato un aumento del 48,8% dei flussi per un valore record di 470,5 miliardi di dollari (esclusi Giappone e Australia). Per quest’anno è atteso un ulteriore balzo del 30% trainato da Cina e India, alla ricerca non solo di acquisizioni per garantirsi i rifornimenti di materie prime, ma anche di asset strategici per l’ulteriore sviluppo di multinazionali che, fattesi le ossa in casa, ora (sostenute dai governi) hanno come raggio d’azione il mondo. È il caso dell’indiana Reliance Indiustries che ha messo sul piatto circa 3 miliardi di dollari per partecipazioni nelle americane Atlas Energy e Pioneer Natural Resourses. O della cinese Huawei (tlc) che pure guarda al Nord America.