Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2012 alle ore 06:46.

My24

In calce a questa misura non c'è una firma teutonica, bensì quella italianissima di Andrea Enria, il dirigente di Banca d'Italia che nel marzo 2011 è stato scelto per presiedere l'organo di vigilanza bancaria dell'area economica europea.
All'indomani della crisi del debito sovrano, l'obiettivo della raccomandazione era più che ragionevole: aumentare il livello di capitalizzazione delle banche per rassicurare i mercati sulla loro capacità di fronteggiare ulteriori shock economici con un'adeguata posizione patrimoniale. La richiesta alle 71 maggiori banche europee (tra le quali le italiane UniCredit, Intesa Sanpaolo, Monte Paschi di Siena, Ubi e Banco Popolare) era duplice: entro il 30 giugno non solo avrebbero dovuto costituire un buffer, o cuscinetto, di capitale "eccezionale e temporaneo" a copertura dalla loro esposizione sui titoli di Stato, ma dovevano portare il cosiddetto Core Tier 1, cioè la parte più nobile e liquida del proprio capitale, oltre la soglia minima del 9 per cento. Una terapia da cavallo, visto che fino a quel momento era previsto che il coefficiente del Core Tier 1 richiesto al 30 giugno 2012 dovesse essere meno della metà.
Questa misura di fatto rovesciava l'ottica di vigilanza prudenziale, che è quella di porre un limite minimo vicino al quale una banca viene considerata problematica, imponendo invece un target in Italia difficile da raggiungere per quasi tutti. Dei cinque maggiori gruppi bancari nazionali solo Intesa raggiungeva, a malapena, i requisiti richiesti. Le altre quattro registravano quasi 15 miliardi di shortfall, cioè di buco. Anche a causa delle forti minusvalenze nei titoli di Stato. Come quelle spagnole, le banche italiane erano dunque colpite sia sul fronte del coefficiente patrimoniale che sul buffer contro l'esposizione al debito sovrano.
Come ha fatto notare sul nostro stesso giornale Stefano Caselli, docente di Economia dei mercati finanziari alla Bocconi, da un punto di vista astratto l'esercizio dell'Eba aveva una sua logica (anche se c'è chi ritiene che il vero problema delle banche sia l'eccessiva leva e non la scarsa capitalizzazione), «ma un esperimento nato in laboratorio deve fare i conti con la realtà del ciclo economico».
E non si può certo dire che la misura dell'Eba sia uscita bene dall'esame con l'economia reale. Perlomeno non in Italia. «La raccomandazione si è rivelata non solo un vero disastro per la nostra economia, ma una grandissima ipocrisia», denuncia un ex dirigente di Banca d'Italia, che come gli altri chiede l'anonimato. «Perché l'Eba non può imporre misure straordinariamente restrittive sui capitali e poi dire, come ha detto, che banche e autorità di vigilanza nazionali debbono assicurarsi che il flusso di crediti verso l'economia reale sia garantito. È come se un allenatore costringesse un suo atleta a correre la maratona a gambe legate e poi annunciasse al mondo di aspettarsi un tempo da record».
In un'audizione al Senato italiano del primo febbraio scorso, Enria ha sostenuto che l'Eba è impegnata a evitare che «l'esercizio di ricapitalizzazione sia causa di un ulteriore impulso alla contrazione del credito», aggiungendo che «solo limitate riduzioni degli attivi saranno consentite per soddisfare» i requisiti dell'Authority europea.
«Questo è assolutamente falso», denuncia uno dei due top bankers. «C'è stata una forte pressione sugli organi di vigilanza nazionali da parte dell'Eba affinché tra le misure per arrivare al 9% non si facesse mai alcun riferimento a una riduzione degli impieghi, termine il cui uso è stato di fatto proibito. Ma è solo una questione di facciata: in realtà sin dai primi mesi del 2012 non eroghiamo più niente di nuovo. Perché quella è una delle due misure che più ci permettono di avvicinarsi di corsa al target improvvidamente imposto dall'Eba».
Nella sua raccomandazione l'Eba suggeriva alle banche di utilizzare in prima istanza risorse private. Quindi innanzitutto l'aumento di capitale. Ma per via delle condizioni del mercato e di alcune restrizioni specifiche (la fondazione del Montepaschi non vuole cedere il controllo e Ubi e Banco Popolare sono istituti ad azionariato popolare quindi chiusi a un qualsiasi grande investitore), in Italia quella strada è risultata praticabile solo per UniCredit. Che peraltro l'ha pagata a caro prezzo. Altre misure dello stesso genere – come la mancata distribuzione degli utili o le restrizioni di bonus aziendali – avrebbero avuto un impatto quasi insignificante. E viste le attuali condizioni del mercato, lo stesso valeva per il cosiddetto asset/credit disposal, cioè il trasferimento di beni o crediti.
Le uniche due misure di grosso impatto erano "l'ottimizzazione degli attivi di rischio ponderato" e "l'utilizzo a fini regolamentari di modelli interni per il calcolo dell'assorbimento patrimoniale dei rischi di mercato e dei rischi di credito".
«Fuori dal linguaggio in codice, con quei termini si parla di stretta creditizia e artificio contabile», spiega la nostra fonte. «Per tutti noi l'ottimizzazione del rischio ha significato il contenimento, o addirittura il recupero del credito, in altre parole la chiusura dei rubinetti o peggio il rientro dai fidi concessi. E l'adozione di nuovi modelli interni non ha fatto altro che permetterci di computare gli stessi rischi con parametri diversi. È stato dunque un esercizio puramente contabile, perché con i nuovi modelli interni, seppur misurato in modo diverso, il rischio è rimasto esattamente lo stesso. E l'ulteriore ipocrisia, è che tutti – autorità di vigilanza incluse – questo lo sanno».

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi