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Questo articolo è stato pubblicato il 29 maggio 2012 alle ore 08:16.

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Un Iraq inatteso quello che mercoledì pomeriggio è confluito pomeriggio tra i marmi della grande sala conferenze della Farnesina al seguito di Mohammad Abdulahm, viceministro del petrolio di un Paese che si appresta a diventare il secondo esportatore mondiale di idrocarburi e che già oggi vede alzarsi ogni giorno l'asticella della produzione. Ormai siamo quasi a tre milioni di barili al giorno. In dollari fanno circa 9 miliardi al mese. Entro due anni, saranno quasi il doppio. E nel 2020 si salirà a 12 milioni: due milioni in più dei livelli odierni dell'Arabia Saudita.

A un lato dei lunghissimi e luccicanti tavoli in noce che costeggiano i quattro lati della sala, una settantina di imprenditori, trader e tecnici di imprese irachene con una nutrita lista della spesa: tutto quello che serve per ricostruire l'apparato produttivo del Paese. Di fronte un numero ancor più grande di aziende italiane invitate dal Ministero degli Esteri e dall'ufficio romano dell' Unido, l'organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, per presentare le loro proposte.

I soldi per pagare - questa la grande svolta in atto - ormai ci sono. Grazie agli introiti del petrolio che aumentano di giorno in giorno, lo Stato non solo chiude i conti in attivo ma riesce a fare confluire somme consistenti verso le diverse Province e Governatorati del Paese che a loro volta li dirottano verso costruttori e contractor privati per affrontare la priorità numero uno del Paese: il bisogno di alloggi. Ci sono località dove gli indici di affollamento sono ormai intollerabili: 6-7 persone a stanza. I cantieri aperti ormai si vedono un po' dappertutto e gli obiettivi restano ambiziosi: ottocentomila appartamenti in due anni, due milioni e mezzo entro il 2015/2016. Più le scuole, gli ospedali, le reti urbane. Ma ci sono anche altri progetti che stanno procedendo: tra cui il risanamento di una settantina di industrie di Stato con linee di produzione quasi sempre antiquate e in buona parte inattive, il decollo dell'industria privata che esiste ma che attualmente copre una piccola parte della produzione manifatturiera, la ricostruzione dell'agricoltura.

Perché questo è oggi il paradosso. L'Iraq, che negli anni '70 era un grande produttore agricolo e che aveva un'industria emergente nei settori della petrolchimica, dei fertilizzanti, con cementifici, fabbriche tessili, metallurgiche, di materiali e componenti edilizi, di medicinali e prodotti alimentari, è invece costretto a importare quasi l'80% del suo fabbisogno alimentare e, praticamente, la quasi totalità degli altri prodotti industriali. Da quali Paesi? Nel Nord dell'Iraq soprattutto da quelli più vicini: Iran e Turchia. A Sud, partendo dal porto di Basra, sbarcano invece i container dal resto del mondo, con il made in China in prima fila.

In questo contesto il Sistema Italia, si sta muovendo in diverse direzioni. Ci sono il gruppo Eni con lo sfruttamento del megagiacimento di Zubair e il progetto di una grande raffineria a raffineria a Kerbala. Impregilo, Salini e altri costruttori in cordata con il progetto del porto di Al Faw, che dovrebbe diventare il perno del sistema logistico del Paese, progettato dalla Technital, la stessa società che ha disegnato il sistema Mose per la difesa della Laguna di Venezia, e che stanno cercando (compito non facile) i finanziamenti per realizzare la prima tranche (oltre 4 miliardi di dollari).

Trevi che punta a ripristinare e potenziare la grande diga di Mossul che richiede complesse opere di consolidamento. La SGI di Padova, che opera con otto uffici e una quarantina di dipendenti in diverse città dell'Iraq. La società è riuscita ad aggiudicarsi le commesse per diversi piani di sviluppo urbano nonché la progettazione del piano nazionale delle acque che dovrebbe completare ed aggiornare le grandi infrastrutture di canalizzazione e di irrigazione del Paese, lasciate in sospeso dal regime di Saddam. Ora punta a creare dei consorzi di costruttori anche italiani per concorrere alla realizzazione di diverse opere tra cui la riabilitazione del centro storico di Mosul e la rete di trasporto leggero di Suleimaniyah nella Regione autonoma del Kurdistan.

Ma l'obiettivo della Farnesina e di Unido è anche un altro: si tratta mettere l'insieme del Sistema Italia delle imprese nelle condizioni di partecipare alla ricostruzione dell'economia del Paese puntando soprattutto sulla fornitura di macchinari e sulle due filiere in fase di decollo: industria delle costruzioni e dei componenti e materiali per l'edilizia e filiera agricola e agroalimentare. Il Governo italiano ha messo a disposizione del Governo iracheno una linea di credito in più tranches. La prima, servirà per la fornitura di attrezzature agricole: trattori, mietitrebbia e altri macchinari, sistemi di irrigazione. E' solo una prima apertura in attesa che si attivi il canale che per ora manca: quello dello banche commerciali.

Ieri, a margine degli incontri cosiddetti business to business si è tenuta una riunione separata con la presenza dei responsabili per i rapporti commerciali dei maggiori istituti di credito operanti in Italia incluse Intesa Sanpaolo a Unicredit, Montepaschi, Deutsche Bank, Ubae. Non sono emerse grandi novità ma un'indicazione generica: i canali vanno attivati perché ci sono grandi opportunità, ma per ora intendono andare con i piedi di piombo. Nessuna apertura incondizionata verso singole banche irachene per la conferma delle loro lettere di credito ma una valutazione, caso per caso, delle singole operazioni.

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