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Questo articolo è stato pubblicato il 14 agosto 2012 alle ore 08:17.

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Non ci sono più "marangon" e neppure "schei". Né "falegnami" né "soldi". Forse è per questo che il distretto veronese del mobile artigianale – che corre sulla direttrice tra i comuni di Cerea e Bovolone – non trova pace e va persino alla ricerca di un nome nuovo che possa rappresentare meglio un'identità in trasformazione, attrarre giovani leve e riportare ossigeno economico nelle casse di un polo che ha perso smalto.

«Prima era il distretto del mobile d'arte – spiega Ottorino Magnabosco, a capo di Confindustria Legno Verona e titolare di Mk cucine di San Giovanni Lupatoto –, poi è diventato dello stile e adesso è del classico».
Il distretto è passato dalle circa 2.600 aziende di oltre venti anni fa alle attuali 1.381 dedite alla sola fabbricazione di mobili. A queste bisogna aggiungerne circa 500 che ruotano intorno a questo mondo e che hanno fatto della diversificazione la loro missione (dal tessile al vetro, passando per il metallo). Mentre 20 anni fa il 40% della produzione era destinato fuori frontiera e il 60% era destinato al consumo domestico, ora le proporzioni si sono invertite e ci sono piccole realtà che non sanno neppure cosa siano i confini italiani: tutto vola oltreconfine.

Neppure il cambio di nome servirà probabilmente a salvare il distretto da una crisi che è diretta espressione del tempo: i figli dei falegnami non vogliono più sporcarsi le mani con polvere di legno e trucioli, visto che devono pure competere con i prodotti industriali delle Marche, di Pordenone o della Brianza, senza contare la Germania o la Cina.
Il distretto non è mai riuscito a fare il salto di qualità anche perché ha fatto di tutto per farsi del male da solo. «Avevavamo una scuola di ebanisteria unica nel suo genere – ammette Luciano Rossignoli, direttore di ExportVerona, un consorzio che aiuta le imprese ad uscire dal proprio guscio domestico – e proprio quando eravamo riusciti a coinvolgere nel suo rilancio anche la Regione, sindacati e associazioni datoriali, ha chiuso». «È stata una scelta dolorosa ma obbligata», commentò il 10 giugno 2011 l'assessore al Lavoro della Provincia di Verona Fausto Sachetto.

Il Centro – da due anni – non riceveva più richieste di iscrizione per l'indirizzo di tecnico dell'industria del mobile e dell'arredamento, mentre per il corso di operatore del legno ne aveva ricevute nove nell'anno scolastico 2009/2010 e tre nel 2010/2011. Per l'anno scolastico 2011/2012 sono arrivate meno di dieci iscrizioni al primo anno formativo, non sufficienti per giustificare la partenza di un triennio di formazione di base, considerando anche la povertà di fondi.
Quel polmone professionale che formava dai falegnami ai restauratori, dai disegnatori agli arredatori non c'è più perché mancavano gli alunni ma, come ricorda sconsolato Magnabosco, «a Pordenone la scuola c'è e pensi che le aziende del legno si contendono gli alunni. I migliori li prenotano ancor prima che escano dai corsi di formazione».

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