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Questo articolo è stato pubblicato il 14 agosto 2012 alle ore 08:17.

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Miopia, cecità dettata sempre da quella voglia di fare da soli, forse nel ricordo di quando – correvano gli anni Sessanta – tutto era facile, i soldi scorrevano e persino i barbieri si erano inventati mobilieri. «Abbiamo 40 aziende del distretto consorziate – spiega Rossignoli – e se le parametriamo al numero di imprese attive sono un'inezia. Niente da fare: non vogliono consorziarsi anche se quando lo fanno i risultati arrivano. Il nostro consorzio è nato nel 1984 e la prima cosa che abbiamo fatto è stato mettere a frutto una legge regionale che dava contributi a chi si muoveva verso nuovi mercati internazionali. Comprammo 24 fax per agevolare la tempestività delle informazioni». I risultati arrivano dunque soprattutto quando imprese e artigiani si affidano alle missioni all'estero. A partire dall'America e dai Paesi dell'Est dove il made in Italy è ancora apprezzatissimo e sembra veramente paradossale che l'internazionalizzazione non rappresenti un grido di battaglia in grado di unire le forze di tutti gli operatori. «Se vuoi vendere in Russia, Ucraina e nei Paesi dell'ex Unione Sovietica – continua Rossignoli – devi vendere il classico-classico» che, per uno strano incrocio geografico, è apprezzatissimo ancora in alcune oasi del Sud Italia, come a esempio la Sicilia.

«Sull'isola avevamo 42 rivenditori con i nostri prodotti di altissima qualità – spiega Bruno Piombini, terza generazione di mobilieri con la quarta pronta a entrare –, abbiamo fatto investimenti, il mercato rispondeva ma poi ci è crollata addosso, come a tutti del resto, la crisi che, certamente non è partita da ieri».
La crisi globale ha trovato impreparati i piccolissimi e piccoli artigiani che alimentano una catena fatta di non più di 20, 25 medie aziende e due o al massimo tre imprese di grandi dimensioni sulle quali spicca Selva che ha sede a Bolzano ma ha il cuore produttivo nel «grande laboratorio», come amano definirlo, di Isola Rizza.
Il cuore pulsante della filiera è fatto di realtà spesso minuscole e addirittura individuali che coprono con maestria invidiata anche dagli altri distretti italiani del mobile tutta la filiera della manodopera: dal taglio all'intarsio, dalla laccatura alla doratura, dal grezzo ai pannelli, dalle cornici agli specchi. Poi c'è chi fa solo antine o solo pomelli e via di questo passo con un'arte che, come ogni rappresentazione del genio italiano, ha un costo che non è più alla portata di molti.

Mancano i "marangon" ma anche "schei", i soldi per mettersi in casa il made in Italy. La filiera è cara: a partire dalla materia prima di qualità e a nulla vale provare ad andare in Romania o in Cina per abbattere il costo del lavoro. «Le nostre manualità e le nostre professionalità – spiega Magnabosco – sono inimitabili e al massimo qualcuno ha provato a far entrare in fabbrica manufatti grezzi, nulla di più». La Cina, croce e delizia. Non è ancora un mercato di sbocco ma è una piazza che copia. «Mio figlio è appena tornato dalla Corea – interviene Bruno Piombini, a capo della società per azioni nata nel 1925 – e lì ha trovato mobili cinesi che scopiazzano quelli italiani». Sono prodotti di fascia bassa che nel momento in cui la crisi morde ovunque diventano appetibili. La concorrenza, però, non è solo dall'altra parte del mondo. È anche in casa come ama ripetere Rossignoli: «Molti dei mobili fatti in Brianza – spiega – vengono fatti sulla base di prodotti grezzi e semilavorati che noi gli mandiamo. Concorrenti sono anche francesi, spagnoli, polacchi e tedeschi. Questi ultimi, che hanno nel settore una tradizione, prima degli altri hanno capito che con la caduta del Muro di Berlino si aprivano enormi opportunità per investire oltrecortina».

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