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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2012 alle ore 08:31.

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I passi perduti sono italiani. Le impronte che li hanno sostituiti sono cinesi. Il distretto vigevanese della calzatura, in provincia di Pavia, ha perso perfino il dialetto – che da queste parti è identità e cultura – per fare giocoforza spazio al mandarino, ma l'élite sopravvissuta di imprenditori è, come un tempo, sempre con la valigia in mano e i campionari dentro, pronta a salire su un aereo per chiudere in tutto il mondo affari milionari.

Nella città ducale in 50 anni è cambiato tutto ed è come se non fosse mai stato scritto il reportage di Giorgio Bocca sul boom economico del dopoguerra.
Nel 1962, sul quotidiano Il Giorno, il giornalista scrisse di Vigevano: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una».
Ora a fare soldi non ci pensa più nessuno, gli abitanti sono 63.700, gli operai rimasti, uno dopo l'altro vanno in cassa integrazione, le poche librerie chiudono e quasi tutti i milionari calzaturieri se ne sono andati o hanno chiuso prima della crisi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta. Quelli che sono rimasti, i soldi li hanno reinvestiti nelle fabbriche: se la roulette ha girato per il verso giusto sono rimasti sul mercato, altrimenti ci hanno rimesso anche il patrimonio.

Non solo: gli operai, nella città ducale a 45 km da Milano e 25 da Pavia, sono stati via via sostituiti da una pletora indefinita e indefinibile di lavoratori edili che hanno contribuito al boom del mattone in una città dove le case non si vendono più da anni anche se in consiglio comunale c'è chi ancora pensa di basare il futuro su una nuova espansione urbanistica magari fatta a colpi di centri commerciali, compreso un outlet, di cui si favoleggia da anni, che se mai fosse costruito diverrebbe il tappo che farebbe implodere un territorio in cui le infrastrutture viarie – ferrovie e strade – sono degne di un Paese in via di sviluppo.
Forse per orgoglio, forse per cecità, qui analisti, sindacalisti e imprenditori contestano che un territorio possa essere letto (anche) attraverso i numeri. Sarà ma – soprattutto a chi li usa per calzarli in una forma che poi diventa scarpa – i numeri dovranno pur dire qualcosa sulla trasformazione del distretto.

Nel 1907 i calzaturifici erano 36, gli addetti 1.470, gli artigiani 8mila e le paia prodotte ogni giorno 1.110. Nel 1962 le imprese erano 970 e le paia sfornate ogni anno 27,5 milioni, di cui 14 esportate. Fu l'apice. Poi il crollo. Nel 1992 le aziende rimaste erano 150 e oggi, dichiara Massimiliano Boccanera, dell'Unione industriali di Vigevano, «le imprese industriali saranno al massimo una quindicina con circa 800 dipendenti di cui la metà è assorbita dal calzaturificio Moreschi, vanto dell'area e fortemente legato all'idea del made in Italy». A queste vanno aggiunte 40/45 medie imprese e all'incirca altre 300 realtà artigianali. «Anche per noi – dichiara Roberto Gallonetto, segretario generale di Confartigianato Lomellina – è dura contarci. Quello che sappiamo è che nel primo trimestre del 2011 le 41 aziende metalmeccaniche della calzatura non avevano chiesto una sola ora di cassa integrazione. Nei primi tre mesi di quest'anno ne hanno chieste 801».

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