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Questo articolo è stato pubblicato il 03 settembre 2012 alle ore 08:42.

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«È andata alle cave di marmo? Quanto ha impiegato dal centro di Carrara, 7 minuti? Per attraversare la città ce ne vogliono 3, per andare al porto altri 5: vede, la nostra fortuna è proprio questa, in 15 minuti si può andare dalle cave al mare. Non è possibile in nessun altro posto al mondo».
Franco Barattini, 72 anni di cui quasi 60 trascorsi a lavorare nelle cave di marmo bianco di Carrara («avevo 12 anni e mezzo quando ho cominciato»), proprietario di quella che porta il nome di Michelangelo perché il grande artista vi scelse il blocco per scolpire la Pietà, ha una certezza incrollabile: «Abbiamo un territorio meraviglioso e una materia prima unica, che non ha eguali in Vietnam, Pakistan o Cina: è una grande ricchezza e dobbiamo venderla bene».

Passano gli anni, oscilla il mercato, ma il nodo resta sempre questo nel distretto lapideo apuo-versiliese, pomposo nome ufficiale che serve per tenere insieme le famose cave di marmo bianco di Carrara (un'ottantina) con quelle di Massa e della vicina Versilia, e con le lavorazioni delle pietre ornamentali e la meccanica del lapideo disseminate "a valle", che si spingono fino a La Spezia. Vendere bene la ricchezza del territorio significa, in pratica, esportare nel mondo il marmo delle Alpi Apuane dopo che è stato lavorato, invece che far partire blocchi e lastre grezzi, destinati a essere tagliati e lucidati altrove, magari in Cina o in Brasile, dove hanno imparato bene e in fretta (grazie anche alle macchine vendute dagli italiani).

Su questo fronte, negli ultimi 20 anni si è parlato molto e combinato poco: le 631mila tonnellate di marmo lavorato esportate nel 1991 si sono ridotte a 454mila nel 2001, per fermarsi sotto quota 281mila nel 2011 (dati Imm). Nello stesso periodo, l'export di marmo in blocchi e lastre è salito dalle 170mila tonnellate del 1991 alle 507mila del 2001, fino alle 656mila sfiorate nel 2011. A completare il quadro si è compressa drasticamente, soprattutto negli ultimi dieci anni, la (importante) lavorazione del granito (da 230mila a 82mila tonnellate), "conquistata" da Paesi dove la manodopera costa meno (India, Brasile, Cina). Eppure, a dispetto di questi fattori potenzialmente destabilizzanti, qui non s'è vissuta la crisi nera che ha colpito altri distretti, portando emorragia di aziende e lavoratori. Il polo ha ampliato la lavorazione del marmo, mostrando flessibilità e capacità di adattamento.

E ha continuato a esportare il 50% del business, pur cambiando radicalmente i mercati di sbocco, riuscendo a "tenere": risultato che vale doppio in un territorio come quello di Massa-Carrara, colpito da una pesante crisi industriale.
«Il vantaggio è avere una materia prima, soprattutto in un paese come l'Italia che ne è povero», spiega Andrea Balestri, direttore di Confindustria Massa-Carrara. «Se poi questa materia è famosa e pregiata come il marmo bianco di Carrara, il vantaggio è ancora più grande: e infatti il distretto si è difeso meglio di altri, anche se ha perso qualche pezzo per strada», aggiunge Balestri. L'appeal sui mercati internazionali del marmo bianco di Carrara, unito all'aumento del prezzo medio di vendita (+21% nel 2011, a 213 euro a tonnellata per i blocchi e lastre esportati), è stato la ciambella di salvataggio di un distretto che oggi conta 1.500 aziende, in gran parte piccole e specializzate in una singola fase di lavorazione, 6mila occupati e 1,5 miliardi di valore aggiunto.

«Negli ultimi due anni il marmo bianco di Carrara ha avuto un rilancio clamoroso, che ha trainato sia il comparto dell'escavazione che quello della trasformazione», certifica Giorgio Bianchini, titolare della Benetti (macchine per le cave, 9 milioni di fatturato 2011 per l'85% all'estero) e presidente dell'Internazionale marmi e macchine (Imm), la società a maggioranza pubblica che promuove il settore lapideo e organizza la fiera internazionale CarraraMarmotec. Bianchini liquida con approccio pragmatico il dibattito sulla necessità di incrementare la trasformazione in loco del marmo estratto: «Possiamo continuare a dire che va creata una filiera lunga estrazione-trasformazione, e magari che per svilupparla è necessario che le nostre piccole aziende si aggreghino, ma sappiamo tutti che questo non accadrà, perché va contro il mercato». Il mercato del marmo, in effetti, si è spostato da tempo dall'Italia e dall'Europa ai Paesi emergenti, tanto che oggi al primo posto tra gli sbocchi del distretto c'è la Cina, seguita da India e Tunisia.

E dunque «è normale che una grande azienda americana compri un blocco a Carrara e lo trasformi in Cina o in Brasile, dove la manodopera costa meno e la qualità delle lavorazioni ormai è alta, anche perché poi è lì che lo venderà». Così come è normale che «chi estrae preferisca vendere il marmo a blocchi, visto che è più facile, meno rischioso, e ti pagano pure prima della consegna», conclude Bianchini.
Qualche segnale in controtendenza però c'è, visto che negli ultimi due anni l'export di marmo lavorato nel distretto è cresciuto (+6,3% in quantità nel 2011, che segue il +11,1% del 2010). «Una promettente inversione di tendenza», la definisce Balestri che, rispolverando il suo passato da studioso dei distretti industriali, sentenzia: «Carrara è il posto che meglio risponde alla definizione di distretto coniata da Giacomo Becattini, fondata su uno stretto legame tra popolazione e imprese in un'area circoscritta: qui infatti la vita quotidiana è visceralmente collegata all'attività economica».

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