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Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2012 alle ore 08:30.

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«Quel giorno era nato mio figlio Paolo. Mi trovavo in un corridoio del Doctor's Hospital di New York. A un certo punto incontro una donna bionda. Bellissima. Era Marylin Monroe». Cose che capitavano alla gente di Biella, in giro per il mondo ad acquistare materia grezza o a vendere tessuti e filati.

Ogni volta rientrando a casa, sulla prima montagna piemontese, per poi ricominciare daccapo il ciclo industriale e commerciale e mettere da parte il guadagno, una lira sull'altra, in uno degli angoli del Paese che coniuga di più etica del lavoro e risparmio. Paolo Bricco
E chi se ne importa se a Milano e a Torino ironizzano sulla loro parsimonia quasi moralistica. Qui agli esponenti della finanza d'assalto partoriti dalla mala-provincia italiana, alla pasticceria del Teatro Sociale non avrebbero offerto nemmeno un caffè. Emilio Falco è alto e secco come un fuso da telaio. Ha 83 anni. Nel 1951 si trasferì a New York. Sarebbe tornato a Biella dopo nove anni («mi ha spinto l'amore delle nostre Alpi, meglio lo skyline del Monte Rosa che quello di Manhattan», dice con arguzia). Nella petite histoire della guerra di Corea, fino al 1953, Falco ha avuto una funzione strategica: procurava in Asia, all'amministrazione di Washington e alla U.S. Navy, gli introvabili sacchetti di seta per la polvere da sparo, senza cui i cannoni di produzione americana non funzionerebbero bene.

L'icona della sensualità nel secolo americano, Marylin, e i segreti militari del primo confronto bellico della guerra fredda. La città che non dorme mai e la Valle Mosso. «Ho pensato spesso a quegli anni, noi di Biella eravamo davvero al centro delle cose», riflette Falco. Solo che, adesso, tutto è cambiato. O, meglio, sono cambiati gli equilibri del capitalismo produttivo internazionale. Sotto ogni punto di vista. Prima di tutto c'è stata l'evoluzione novecentesca della struttura produttiva europea, che anche nel tessile ha sperimentato negli anni Settanta un salto tecnologico e organizzativo basato sulla sostituzione degli uomini con le macchine; nel decennio successivo una prima dura selezione dei sistemi produttivi locali meno competitivi e negli anni Novanta una ulteriore accelerazione. «Gli equilibri nel tessile e nella moda sono mutati, l'Asia ha fatto irruzione sul mercato, la globalizzazione ha mostrato il suo doppio volto: pericolo e opportunità», osserva Falco. È stato un periodo insieme vitale e doloroso. Le statistiche mostrano bene il cambiamento strutturale del tessuto produttivo tessile biellese. Una autentica metamorfosi che ha cambiato il suo codice genetico, con un down-sizing atipico perché unito a un rilevante incremento di efficienza.

Nel 1991 le unità locali erano 1.801 e avevano 27.953 addetti; dieci anni dopo le unità sono diventate 1.320 e gli occupati sono scesi a 23.821 ; nel 2011 si sono attestate a 1.364 con 17.200 addetti. Il perimetro di questo pezzo di manifatturiero italiano si è ristretto in termini di numero imprese e di occupazione. Ma non si è sfilacciato. Non ha subito, negli anni Novanta, il temuto processo di disintegrazione che in altre realtà internazionali europee e nordamericane ha ridotto a poca cosa il tessile. Una continuità di medio periodo sorprendente. Una tenuta che, almeno finora, non ha risentito (almeno in termini drammatici) della crisi finanziaria innescatasi nel settembre del 2008 con il crollo di Lehman Brothers e del successivo contagio del manifatturiero mondiale.

Tanto che, negli ultimi anni, ha conservato l'incremento ottenuto negli anni Novanta della sua capacità di vendere prodotti sui mercati internazionali. Basta osservare la curva dell'export, caratterizzata nei primi dieci di questi ultimi vent'anni da una impressionante inclinazione positiva: se nel 1991 le esportazioni biellesi del tessile valevano in lire l'equivalente di circa 300 milioni di euro, nel 2001 sono arrivate a 1,25 miliardi per poi stabilizzarsi a 1,22 nel 2011, anno di ripresa a due cifre dopo le difficoltà del 2010. In vent'anni, dunque, è scomparso circa un quarto delle imprese (considerando le unità locali come riferimento statistico, -24%) e si è perso il 38% dei posti di lavoro, ma si è registrato il triplo di export. Una equazione economica risolvibile soltanto con la chiave dell'aumento della produttività interna. La produttività delle singole imprese e la produttività del distretto tessile nel suo insieme, dove secondo la classica interpretazione marshalliana il capitale sociale (l'atmosfera) riesce a rendere il complesso delle azioni dei singoli protagonisti economici più efficiente rispetto alla somma delle parti. Nel dettaglio, questo particolare fenomeno economico si traduce da un lato in un numero minore di buste paga e, dall'altro, in personale più qualificato; in un controllo dei costi industriale che non ha impedito l'innovazione; in prodotti oggi più apprezzati di un tempo sui mercati internazionali.

Più piccoli e più robusti, dunque. Una tendenza virtuosa che si percepisce anche sotto il non irrilevante aspetto giuridico, dove il tessile biellese ha dimostrato una coerenza di fondo con un trend di sviluppo dell'economia italiana incentrato sul rafforzamento giuridico e patrimoniale della piccola impresa. Qui, come in tutto il Paese, magari le medie imprese non diventano grandi o perché non riescono a farlo o perché hanno in quella taglia dimensionale un equilibrio produttivo e finanziario tale da rendere irrazionale e irragionevole una crescita. Però, anche a Biella, le piccole aziende riescono spesso ad abbandonare la condizione di nanismo, giudicata ormai una minorità patologicizzante perfino dagli stanchi epigoni della retorica del "piccolo è bello". Considerando soltanto il periodo compreso fra il 2000 e il 2001, infatti, nel distretto del tessile biellese la quota della società di capitale sul totale delle imprese è salita dal 10,6% al 14,4 per cento.

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