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Questo articolo è stato pubblicato il 27 settembre 2012 alle ore 07:43.

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Vent'anni fa, a Sant'Elpidio a Mare – epicentro di una contagiosa febbre industriale insieme a Montegranaro e Monte Urano – le indicazioni stradali puntavano su suolifici, scatolifici, guardolifici, formifici, trancerie, fustellifici e, ovviamente, sui calzaturifici che assemblavano i prodotti finali. Ripercorrendo quelle stesse strade a due decenni di distanza, si vede a occhio nudo che molto è cambiato.

I numeri sembrano parlare chiaro: in quel 1992, le imprese calzaturiere erano oltre 5.300. Oggi sono stimate in 2.700. Sembra che la sorte accomuni le imprese del distretto delle scarpe di Fermo e Macerata a molti altri centri industriali italiani. Ma i numeri non la dicono tutta.
«Molte piccole imprese sono sparite, è vero», commenta Giuseppe Tosi, direttore della Confindustria di Fermo, la giovane provincia che ospita quasi tre quarti del distretto. «Ma c'è stato anche un fenomeno di concentrazione, che ha accresciuto le già modeste dimensioni medie aziendali».
La vocazione per le esportazioni era un antico patrimonio dell'industria locale. Però è successo qualcosa di straordinario: anche grazie alla strada aperta dal gruppo Tod's, molte aziende sono cresciute alzando l'asticella della qualità. «Anche le risorse umane non mancavano», sottolinea Maurizio Di Cosmo, segretario della locale Camera del lavoro. «I lavoratori sono stati parte integrante del rapido riposizionamento delle imprese verso le produzioni di lusso». Così, nei primi anni 90, proprio quando il calo nella domanda di scarpe marchigiane assomigliava a un presagio di sventura, il distretto industriale ha dato un collettivo colpo di reni.

«Il numero delle imprese è calato per quindici anni, ma l'anno scorso, per la prima volta, è cresciuto dell'1,5%. In tempi di crisi, non è uno scherzo», commenta Cleto Sagripanti, presidente dell'Anci (l'associazione dei calzaturieri italiani) e orgoglioso figlio di questa terra. «Sono felice di lavorare in quello che, in termini di creazione di valore, è il primo distretto calzaturiero al mondo», rimarca.
Del resto, la sua Manas è un esempio perfetto: con i marchi Manas Design, Olimpica e Lea Foscati, ha cambiato traiettoria al proprio destino. E lo stesso si può dire di Nero Giardini, Fornarina, Paciotti, Santoni, Virgili, Fabiani, Alberto Guardiani e altri ancora. «Il mercato italiano è in crisi – spiega Sagripanti – ma quelli in Russia, Estremo Oriente, America e Medioriente hanno il segno "più" davanti. Produrre nella fascia medio-alta, ci ha protetti. Diciamo che ci ha salvati».

Questa avventura del resto, ha molto a che fare con la diversificazione. Si hanno notizie di scarpe e pantofole che uscivano dalle botteghe del Fermano già nell'Ottocento. Nei primi dieci anni del Novecento, il fenomeno cresce grazie alla domanda – primi vagiti della globalizzazione – da Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Dopo alti e bassi, la rapida estinzione della mezzadria nel dopoguerra – che prima dava il pane al 60% delle braccia – consacra definitivamente la scarpa come il totem locale. È lì, che tacchifici, tomaifici e guardolifici spuntano come funghi: nei sottoscala, nei garage, perfino nelle case. A Sant'Elpidio si fanno le scarpe da donna, a Montegranaro quelle da uomo, a Monte Urano quelle da bambino. Si lavora anche il sabato e la domenica, come in una gigantesca catena di montaggio a cavallo fra due province.

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