Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2012 alle ore 08:59.

My24

L'Italia è spesso sfacciata e sempre uguale a se stessa, ma è anche una terra silenziosa e piena di misteri. In questa storia ci sono gli uomini dignitosi e duri della Sardegna interna e l'odore forte dei loro formaggi, la suggestione muta e arcaica dei nuraghi e la meccanica poco celeste dei mercati globali, soprattutto quando alterati nella loro fisiologia dal protezionismo.

A Thiesi, nella parte del Sassarese chiamata Meilogu (il luogo di mezzo), si trova l'epicentro di un sistema produttivo locale agroindustriale fondato sul pecorino romano, il formaggio che gli imprenditori laziali insegnarono a fare ai pastori sardi a inizio Novecento, quando l'agro pontino non dava abbastanza erba per saziare la fame delle centinaia di migliaia di pecore che cingevano d'assedio Roma.

Tutto intorno si estende la valle dei trenta nuraghi e delle dieci tombe dei giganti che, dall'età del bronzo e del ferro, guardano l'affanarsi degli uomini e lo scorrere delle cose. E, qui, almeno negli ultimi vent'anni, di affannarsi ce n'è stato parecchio. Nel 1992 prosperavano sei imprese: i Fratelli Pinna, la Mannoni Casearia, la Gam Formaggi della famiglia Manca, la Cossu, la Fadda-Manca e la cooperativa Melogo. In tutto, davano lavoro a 350 addetti diretti, a cui si aggiungevano una ottantina di padronicini che con camion e cisterne garantivano la logistica e i trasporti di un polo del formaggio che poteva contare, in tutta la Sardegna, su 2mila fornitori di latte di pecora.

Gli addetti diretti sono rimasti più o meno gli stessi: circa 350. Soltanto che si sono rimodulati gli equilibri fra le imprese. La Fratelli Pinna è passata da 250 a 350 dipendenti. La Mannoni Casearia si è ridimensionata. La Cossu ha chiuso. La Gam Formaggi ha deciso di non trasformare più il latte, ma di portarlo a Chilivani, a trenta chilometri da qui, dove si trova il consorzio Agriexport. Anche la Melogo, una cooperativa a cui conferivano la materia prima i pastori (nel 1992 una ottantina, oggi non più di sessanta), ha scelto di vendere lo stabilimento di Thiesi, di non lavorare più il latte e di portarlo a Chilivani.

In tutto, vent'anni fa, questo sistema di sviluppo locale aveva un fatturato aggregato di circa 170 miliardi di lire; oggi i ricavi complessivi si aggirano intorno ai 70 milioni di euro. Un evidente ridimensionamento. «Tutto è cambiato nella seconda metà degli anni Novanta – ricorda Andrea Pinna – quando la Comunità economica europea ha iniziato a ridurre i cosiddetti premi all'esportazione, eliminandoli poi nel 2000». Un meccanismo introdotto nei primi anni Settanta: per ogni chilogrammo esportato, i produttori europei ricevevano un contributo. Si trattava di una forma compensativa dei dazi che caratterizzavano molti rapporti commerciali fra diverse aree economiche. Peccato che, negli anni, fosse stata estesa anche ai mercati dove, di dazi, non c'era traccia. E che venisse mantenuta in quelli dove, poco alla volta, erano stati cancellati. «Faccio un esempio – continua Andrea Pinna – nel 1994 tutti noi vendevamo il pecorino romano negli Stati Uniti a 5mila lire al chilo. La Cee, per ogni chilo, ci dava altre 4.900 lire».

La sovvenzione pubblica comunitaria eletta a sistema economico. Tutto quello zucchero finanziario in eccesso, che rendeva facile fare soldi vendendo in giro per il mondo il pecorino romano, il pecorino sardo e il fiore, ha reso fintamente robusto, in realtà obeso e fragile, il corpo industriale e organizzativo delle imprese di Thiesi. E, soprattutto, alla sua scomparsa ha minato gli equilibri di un organismo produttivo dalla dimensione (e dalla forza patrimoniale) ridotta. Che ha dovuto riconfigurare la propria attività. Una vicenda paradigmatica dello sforzo che, negli ultimi vent'anni, hanno dovuto sostenere molti settori italiani, trovatisi ad affrontare le incognite dei mercati aperti e a rimediare alla conversione pro mercato della "politica economica" di Bruxelles. Per citare il punto più alto della curva, il 1994, in tutta Italia si producevano 384mila quintali di pecorino romano, oggi diventati 251mila quintali. Una diminuzione della capacità produttiva, non più sovvenzionata dall'Unione europea, che non ha potuto non tradursi in una minore capacità di penetrazione all'estero.

Negli Stati Uniti, che ha rappresentato il primo mercato estero fin dai tempi degli sbarchi dei nostri immigrati a Elllis Island con le loro ceste colme di pasta, di conserve e di pecorino, oggi si vendono 130mila quintali. Nel 2008 erano 180mila quintali. «Con la globalizzazione – nota Giommaria Pinna, cugino di Francesco – sono entrati nella produzione dei formaggi di pecora la Siria, la Bulgaria, la Romania. Figuriamoci quando i turchi decideranno di modificare il patrimonio genetico delle loro pecore, oggi buone per la lana e poco adatte per il latte da formaggio. Sono sessanta milioni di animali, contro i 5,5 milioni in Italia, tre dei quali in Sardegna».

Thiesi è una realtà piccola in una Italia piccola in un mercato a sua volta piccolo: il latte di pecora rappresenta l'1% del latte mondiale. Thiesi, dunque, ha un problema con la regolazione dei mercati (la fine delle sovvenzioni comunitarie) e con la struttura dei mercati (la globalizzazione impostasi all'inizio degli anni Novanta). C'è, poi, un'altra questione più profonda. Che, per usare uno schema interpretativo weberiano fondato sulla prevalenza logica e materiale della cultura rispetto all'economia, potrebbe fare intuire il pericolo di una disarticolazione ancora più profonda del tessuto produttivo di Thiesi e del sistema agroindustriale sardo rispetto a quanto già non abbia fatto (e possa fare in futuro) l'integrazione dei mercati mondiali. Nessuno vuole fare più il pastore. Non è che bisogna indugiare in tardo-pasolinismi. La spiegazione data da tutti, qui a Thiesi, è molto pratica.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi