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Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre 2012 alle ore 06:43.

Non è solo una questione di modello di sviluppo locale. È anche un problema di natura dell'attività economica. «L'innovazione tecnologica mirata a migliorare la qualità della vita – riflette il ministro Clini – come la qualità della salute delle persone, è la ricetta migliorare per contrastare la crisi economica». Dunque, al netto delle debolezze intrinseche e della decomposizione del quadro italiano, il mega cluster toscano delle scienze della vita appare coerente con uno dei principali driver della crescita economica contemporanea, valido sia in Europa sia nei mercati emergenti.
«In particolare – osserva Mario Federighi, titolare della Farmigea di Pisa – , a parte alcuni big player italiani e stranieri presenti in Toscana, esiste una specificità delle nostre piccole e medie imprese: siamo capaci di sviluppare e di vendere buona innovazione, in un rapporto di collaborazione con le multinazionali». Federighi è un imprenditore di terza generazione. L'azienda è stata fondata nel 1946 dal nonno Antonio, allevatore e contadino. Farmigea, che ha il suo core business nell'oftalmologia e nell'otorinolaringoiatria, ha 250 addetti e un fatturato di una quarantina di milioni di euro, il 30% da export. «Abbiamo trovato una molecola attiva nella cura del glaucoma – dice Federighi – adesso stiamo cercando un partner industriale che la sviluppi».
Come in molti altri settori, anche per le scienze della vita il rompicapo della sostenibilità del modello italiano trova una soluzione (almeno temporanea) nella trasformazione della piccola e della media dimensione in un vantaggio competitivo. «Una sorta di artigianato high-tech e una vocazione ai servizi - nota Andrea Paolini, direttore della Fondazione Toscana Life Sciences - che permette al sistema italiano di non essere eliminato dagli oligopoli e dalle strutture compartimentate dei mercati internazionali. Una caratterizzazione che, al contrario, sfrutta proprio le nicchie e risponde alle necessità di servizio dei colossi».
Pazienza se così non si riesce a sfruttare la tendenza strutturale delle life sciences globali, un comparto in cui le imprese di successo fanno margini paurosi. In ogni caso, almeno per ora, la debolezza non è vera debolezza ma, per un paradosso economico, si trasforma in forza. La solita eccezione italiana. Con una bassissima probabilità però di vedere una società diventare una multinazionale. Ma una elevata possibilità che le nostre imprese si infilino (con profitto) nei "pertugi" delle piattaforme e delle catene del capitalismo manifatturiero internazionale o che, in alternativa, sviluppino attività di terziario industriale.
Come fa da 35 anni la Diesse Diagonistica Senese (120 addetti e una ventina di milioni di fatturato nello sviluppo di sistemi per la diagnosi clinica), fondata a Monteriggioni da Francesco Cocola, tecnico formatosi alla Montedison e affermatosi all'Istituto Sclavo di Siena, dove Albert Sabin produsse il primo vaccino anti-polio. Prova a farlo Toscana Biomarkers (test per le malattie autoimmuni), uno spin-off di cinque professori universitari di Pisa e di Firenze ora guidato da Antonio Sanò, anch'egli ex dirigente della Sclavo.
Da una decina di anni ci riesce la Pharma D&S dell'ex tecnico di Menarini Riccardo Ballerini (sede a Scandicci, 40 addetti e 2 milioni di ricavi) che, in un mercato ultra-regolamentato, offre servizi ai giganti di Big Pharma. A questo punto in una struttura produttiva che, a parte le aziende storiche, ha una dimensione piccola o media, la stabilizzazione del tessuto industriale diventa essenziale. E proprio questo è il punto. La necessità, in un comparto in cui l'innovazione nasce strutturalmente all'incrocio fra l'università e l'impresa, di riuscire a trasformare gli accademici in imprenditori. Una metamorfosi compiuta negli Stati Uniti e in Inghilterra. Realizzata in parte in Germania e in Francia. Un grande fallimento, finora, in Italia. «Senza entrare nel merito dell'impostazione regolamentare antimercato delle università – nota Andrea Frosini, delegato all'incubatore di Firenze della Fondazione Toscana Life Sciences – basta osservare la mentalità del professore universitario medio che, da noi, conduce una ricerca, fa un brevetto e, solo quel punto, chiede se interessa a qualcuno. Negli Usa accade il contrario: gli accademici si mettono in scia alle imprese e orientano gli sforzi su progetti che hanno una elevata probabilità di industrializzazione».
Serve un cambio di passo. Culturale e antropologico. «Non bisogna peccare in esterofilia – conclude Landi – ma, perché questa industria liberi tutte le sue energie, occorre che l'artigianato high-tech evolva nell'impresa innovativa e che l'accademico smetta di considerare residuale l'attività di impresa».
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