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Questo articolo è stato pubblicato il 28 novembre 2012 alle ore 07:10.

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È una dura selezione darwiniana quella avvenuta nel comparto del tessile e abbigliamento della Campania. Dove un tempo c'erano cinque distretti – Calitri, San Marco dei Cavoti, Sant'Agata dei Goti, Grumo Nevano e San Giuseppe Vesuviano – oggi esiste un polo produttivo con presenze sparse sul territorio, ma sono scomparse le forti concentrazioni.

Resta un nocciolo duro, di dimensioni e notorietà significative, fatto di marchi riconosciuti a livello internazionale (Carpisa Yamamay), di produzioni sartoriali di alta qualità (Attolini, Kiton, Marinella per citare solo pochi), di aziende artigiane del lusso (Mariano Rubinacci e Ugo Cilento) e di numerose piccole imprese aggressive e flessibili, che oggi producono con marchi propri e si affacciano sui mercati esteri. Un nocciolo duro ancora alle prese con la grande crisi internazionale, il forte calo dei consumi interni e con prove sempre più complesse da affrontare.
Se nel 2006 erano in totale 5.438 le imprese campane del tessile e abbigliamento, nel 2011 il Sistema moda Italia ne ha contate 4.275. Sono 1.200 quelle perse negli ultimi cinque anni. Oggi, con un organico di 28.358 addetti e una forza lavoro pari al 16% del manifatturiero (contro il 13% nel Mezzogiorno e in Italia), il settore della moda resta costituito prevalentemente da piccole aziende, soprattutto in Campania dove l'85,19% di queste ha meno di nove addetti, contro l'84,26% del Mezzogiorno e l'81,73% dell'Italia.

«Molte imprese fanno fatica a rimanere sul mercato – dice Antonio Ricciardi, docente di Scienze aziendali alla Università della Calabria ed esperto di distretti industriali – poche registrano, anche in questo periodo di crisi profonda, incrementi di fatturato e di redditività. Queste hanno un denominatore comune, la strategia: si concentrano nelle fasi a monte e a valle del processo gestionale, design e vendita del prodotto con marchio proprio, mentre esternalizzano la produzione a sub-fornitori di qualità. Grazie a questa strategia, la struttura dei costi delle aziende leader è caratterizzata da una maggiore incidenza dei costi variabili su quelli fissi riducendo il rischio d'impresa».
Un esempio, Carpisa, Yamamay e Jaked, confluite nel 2011 sotto l'ombrello di Pianoforte Holding – che fa capo al neocavaliere del lavoro Luciano Cimmino – in cui da qualche mese è entrato con un 10% il gruppo creditizio Intesa Sanpaolo: una realtà da 300 milioni di fatturato, 1.200 punti vendita di cui 180 all'estero in 26 Paesi, e con 1.100 dipendenti. Carpisa, conserva il suo quartier generale nell'Interporto di Nola.

«In Campania – dice Carlo Palmieri, vice presidente di Carpisa e presidente della sezione moda dell'Unione industriali di Napoli – progettiamo le collezioni. La produzione viene realizzata nel mondo, laddove riteniamo più conveniente. Il ciclo si completa con una rete di franchising monomarca». Il gruppo, grazie al sostegno del socio bancario, spinge tutto sull'estero.

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