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Questo articolo è stato pubblicato il 30 aprile 2014 alle ore 15:10.
L'ultima modifica è del 30 aprile 2014 alle ore 19:18.

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Con Emilio Riva se ne va uno degli ultimi grandi vecchi della siderurgia italiana. Prima, il 26 agosto 2013, Luigi Lucchini. Poi, il 10 settembre 2013, Steno Marcegaglia. Adesso tocca al "ragiunatt", il ragioniere che seppe farsi re dell'acciaio. Un mondo è dunque al tramonto. Il mondo della manifattura italiana del Novecento. Qualcosa che, comunque si risolva l'enigma dell'Ilva oggi commissariata da Enrico Bondi, è ormai finito. Cose del secolo scorso, che però ci definiscono nella nostra identità di Paese industriale oscillante fra la nostalgia di un secolo troppo breve e la tensione verso un futuro in cui tutto – anche la nostra collocazione nelle mappe del capitalismo globale – sta cambiando. Dagli anni Dieci e, poi, soprattutto dal secondo dopoguerra, l'Italia si è trasformata – con una violenta vitalità e un disordine metodico – in un Paese ad alto tasso di industrializzazione. Questo processo di crescita si è nutrito di acciaio.

L'Italia, con la sua economia di trasformazione, ha avuto dunque una componente essenziale nella siderurgia pubblica di matrice Iri e nella siderurgia privata (prima i "baroni", dai Falck agli Orlando, quindi gli outsider come Riva e Marcegaglia). Ora è davvero tutto cambiato. La morte di Emilio Riva rappresenta l'epilogo personale di un finale di partita che, per l'economia e la società italiana, avrebbe potuto essere di caratura diversa. Sì, perché la parabola del gruppo Riva e la vita di Emilio saranno segnate per sempre dall'acquisizione – durante la campagna di privatizzazioni dell'Iri nel 1994 – dell'Italsider, che permetterà al gruppo di compiere un salto dimensionale tale da farne un protagonista internazionale, e dai guai giudiziari che scaturiranno dal problema ambientale di Taranto. Guai giudiziari che, per Emilio, si tradurranno in un lungo periodo di arresti domiciliari. Taranto rappresenta davvero il punto in cui ogni cosa – nella storia italiana – è andata male.

L'economia pubblica ha mostrato appieno, in quella città, la sua forza devastatrice. L'impatto ambientale, soprattutto nei vent'anni compresi fra il 1974 del raddoppio dello stabilimento (da 5 a 10 milioni di tonnellate di capacità produttiva all'anno) e il 1994 della privatizzazione, è stato durissimo e nessuno, a Roma, si è mai curato dei suoi effetti. I partiti hanno occupato militarmente posizioni su posizioni della vecchia Italsider. I ceti politici locali sono cresciuti attaccati al seno dell'acciaieria, lavoro e consenso, squilibri finanziari e scarsa redditività industriale effettiva, fumi neri nell'aria e il quartiere di Tamburi che cresceva a ridosso dell'acciaieria, quando i Riva nemmeno erano mai andati in vacanza a Taranto. Allora si chiamava Prima Repubblica. E, a Taranto, i sindacati mostravano tutta la loro capacità collusiva, forma estrema del consociativismo italiano. Poi sono arrivati i Riva. I quali hanno trasformato il rottame in un gioiello. L'impianto ha raggiunto livelli di produttività e di efficienza assai rilevanti. Produttività, appunto. Efficienza (industriale), appunto. Gli investimenti nell'acciaieria sono stati indirizzati soprattutto al miglior funzionamento e, in parte minore, al rimedio di una condizione ambientale che lo Stato inquinatore aveva lasciato in condizioni al limite dell'incurabilità. Il tutto con una serie di metodi duri e padronali che all'inizio sono stati essenziali per riordinare il caos anarcoide di Taranto. Ma che, poi, si sono rivelati uno spesso diaframma fra la fabbrica e la città, i Riva e i tarantini. Un diaframma inutile e irrazionale, soprattutto quando ha cominciato a delinearsi, con tutta la sua forza, il tema ambientale. Una questione che i Riva avrebbero dovuto affrontare con metodi più ragionevoli e sistemici rispetto a quelli invece adottati, rozzi e da spicciafaccende.

Quando la magistratura – ordine che nella constituency italiana è sistematicamente chiamato a risolvere complessi problemi sistemitici disponendo soltanto dell'unilateralità dei codici - ha incominciato ad operare come un chirurgo convinto che l'Ilva fosse un tumore da estirpare e basta, Emilio Riva si è trovato avvolto da tutta questa rete. Prima a casa sua, ai domiciliari. Poi, su un letto di ospedale.

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