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Norme e Tributi Diritto

La riforma degli avvocati vista dalla base tra disincanto, poco lavoro e deterioramento professionale

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Questo articolo è stato pubblicato il 16 settembre 2010 alle ore 08:07.

Disincanto. E scarsa propensione a credere nelle promesse di lungo periodo e in grandi progetti di riforma: con questo atteggiamento degli avvocati sono impegnati a districarsi tra le angustie del mercato e i labirinti dei tribunali. Bussare alla porta degli studi legali per riflettere di riforma, conciliazione e soluzioni per l'arretrato civile, ci fa incontrare avvocati consapevoli del "deterioramento" professionale che la categoria sta vivendo e consci che per competere servono supporti all'organizzazione dell'attività.

La conciliazione – tanto avversata dall'Oua che intanto ha aperto il confronto con il ministero della Giustizia – suscita invece molte diffidenze. Dice Giulio Prosperetti (omonimo studio legale a Roma) «il contenzioso alimenta un formidabile "indotto". Il cliente spesso vuole solo affermare un diritto o sentirsi dare ragione. Di conciliare non vuole sentirne parlare.

Non dimentichiamo che la giustizia in Italia costa meno rispetto ai Paesi anglosassoni. Invece, i grandi investitori ci evitano perché la vita di una causa è più lunga di quella di un'azienda». Dunque, quali rimedi? «È la giustizia formale che deve funzionare. Oltretutto abbiamo 220mila avvocati. Apriamo, per esempio, i concorsi per titoli, in magistratura, anche agli avvocati. Potenziamo gli organici con giovani più preparati e motivati a lavorare mattina e pomeriggio».

«L'obbligo di conciliazione in prima causa – afferma Carlo Galantini (studio Galantini-Heilbron-Cocco-Ordini di Milano) – già esiste nel codice. Il problema è che se il giudice non conosce preventivamente le carte, è difficile che possa proporre alle parti una composizione alternativa. Quindi nessuno lo fa. Quanto alla conciliazione, per funzionare si dovrebbero retribuire adeguatamente queste nuove figure; non si possono arruolare pensionati per rispondere alla domanda di giustizia».

Un giudizio sulla riforma forense? «Onestamente la seguo poco - ammette Galantini -. Mi interessa però l'istituzione della società tra professionisti. Servono istituti speciali, come le società di ingegneria o di architettura, con una fiscalità calcolata sul complessivo della società e non rapportata ai singoli professionisti».

«Abbiamo paura di perdere la nostra identità

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. Così la riforma "omnibus" non andrà in porto. Anche perché è tutto un tirare il freno a mano senza interrogarsi davvero su dove stiamo andando". A parlare è Gianluca Scagliotti (di Casale Monferrato). «Anche il mercato legale, come quello dei beni, si sta polarizzando, tra servizi di alto livello richiesti da società e banche ed esigenze di giustizia "spicciola". Il futuro – dice Scagliotti – rischia di essere la grande law firm e il negozio giuridico. Una riforma forense non deve ignorare l'esistenza degli uni e degli altri ma intercettare lo spirito del tempo e darsi delle norme light che garantiscano il decoro e il rispetto della clientela».

Per Massimo Melica, legale esperto di diritto informatico, «la tecnologia darebbe una grossa mano. Ma bisogna volerlo. Ad esempio, il processo civile telematico è stato introdotto in Austria in 18 mesi. In Italia, se ne parla dal 2001». A Francesco Mirarchi, 35 anni, che ha in corso la start up del proprio studio a Milano, la riforma forense è apprezzabile «per il ritorno ai minimi, che hanno favorito solo i clienti "potenti" e certo non i giovani ma anche la semplificazione dei criteri di calcolo dell'onorario».

Sulle specializzazioni ci vuole più coraggio: «Come posso non scrivere, dopo 12 anni di diritto societario, che sono "specializzato" in questo? Lo dimostro con i documenti e gli atti redatti in questi anni. Sarebbe ridicolo l'obbligo di frequentare un corso "abilitante" di poche ore, magari con esamino finale». Quindi, la pubblicità: per Mirarchi «guai a contenerla o a diminuirne gli spazi innovativi. Bisogna prendere atto della realtà, vendiamo un prodotto legale, dobbiamo però limitare le derive».

Davide Vicari (studio Vicari a Bologna) chiede prerogative. «Si dovrebbe ripristinare l'obbligo, per le assicurazioni, di pagare il legale del danneggiato o consentire anche agli avvocati di poter autenticare le firme negli atti di compravendita sino a 100mila euro». Secondo Vicari, «la conciliazione tradisce il senso di giustizia. Se la controparte non vuole mediare, perché deve essere un obbligo o devo conciliare e accontentarmi se so di avere ragione?».

Di parere opposto è, invece, Veronica Pruinelli che, a 32 anni, ha deciso di aprire lo studio a Milano. «Credo nella conciliazione. È vero gli italiani sono litigiosi. Ma compito di un avvocato è soprattutto far ragionare il proprio cliente. E, laddove si può, sedersi a un tavolo e disinnescare i conflitti. La conciliazione, se fatta bene, consente di ricomporre la controversia facendo capire che si hanno diritti e doveri».

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