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Questo articolo è stato pubblicato il 09 ottobre 2010 alle ore 09:14.
ROMA - Un fisco più leggero nei territori governati bene, dove i bilanci pubblici non sono un problema, e richieste più pressanti in quelli più in difficoltà, per i quali far quadrare i conti è un'impresa. È il principio classico del federalismo, e nella sua forma italiana disegnata dal maxi-decreto approvato in prima lettura nel Consiglio dei ministri di giovedì avrà applicazioni diverse per ogni tipologia di contribuente. Il tutto, senza aumentare la pressione tributaria complessiva del paese.
Sul rapporto fra federalismo e possibili aumenti di tasse si è scatenata subito la polemica politica, liquidata ieri dal ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli, come «una gara a chi la spara più grossa. Con questa legge - ha chiosato - le tasse diminuiranno». Punto.
Il decreto approvato giovedì fissa due cinture di sicurezza: la sua attuazione non può determinare «minori entrate» o «maggiori oneri» per la finanza pubblica, e non può essere superato il tetto di pressione tributaria complessiva fissato nella decisione di finanza pubblica. Quello che succederà sotto questo tetto, su cui vigilerà la «conferenza paritaria di coordinamento» formata da governo e amministrazioni territoriali, dipende dall'attuazione concreta di questi principi, che però fanno riferimento al quadro generale del paese e non sembrano entrare negli indicatori specifici delle singole regioni. Se la situazione sfugge di mano, però, il governo potrà mettere in campo le «eventuali misure correttive», secondo la formula aperta usata dal decreto, che andrà riempita di contenuti in sede attuativa: nulla esclude, comunque, che dal centro si potranno fermare gli aumenti troppo decisi nelle regioni.
Come ogni federalismo che si rispetti, infatti, il provvedimento lascia ai governatori margini crescenti per decidere le sorti fiscali dei territori. Sull'addizionale Irpef la base rimane ai livelli attuali (0,9%), ma la possibilità di aggiungere tasselli ulteriori, oggi limitata allo 0,5%, è destinata a salire nel tempo fino al 2,1 per cento. Tradotto in pratica, il tetto massimo sale dall'1,4% (1,7% nelle regioni con extra-deficit sanitario) al 3 per cento. Dal rischio aumenti resta escluso chi ha redditi fino a 28mila euro, ma solo se queste entrate sono frutto di lavoro dipendente o di pensione. Autonomi e professionisti, invece, rimangono senza rete, e nel loro caso gli aumenti potrebbero scattare anche quando i redditi sono più bassi. Le regioni potranno comunque graduare le richieste in base ai livelli di reddito, senza però cambiare la scansione nazionale degli scaglioni.