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Questo articolo è stato pubblicato il 09 novembre 2011 alle ore 08:11.

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Soci e amministratori di una società localizzata nella Ue non sono alle prese con una prova diabolica nei confronti del Fisco per dimostrare la residenza estera. La presunzione antielusiva della legge italiana - articolo 73, commi 5 bis, ter e quater del Tuir - è collegata, secondo l'agenzia delle Entrate, a una valutazione caso per caso degli elementi obiettivi e il contribuente può portare elementi probatori circa il radicamento economico all'estero. Insomma, nessun automatismo da parte dell'amministrazione finanziaria, che in contraddittorio con Bruxelles ha spiegato la strategia e i limiti di intervento per contrastare l'esterovestizione, il comportamento del contribuente che si sottrae alla tassazione su base mondiale propria dei soggetti residenti in Italia e viene assoggettato a imposizione solo sui redditi di fonte italiana.

L'amministrazione finanziaria era stata portata sul banco degli imputati dall'Aidc (l'Associazione italiana dottori commercialisti), in particolare dalla commissione Compatibilità comunitaria di leggi e prassi fiscali italiane. La tesi dell'accusa riguarda il possibile contrasto tra legge italiana e libertà di stabilmento. Se in questo processo virtuale l'Aidc ha rivestito i panni del Pm, Bruxelles è stata il giudice, che dopo aver ascoltato l'imputato ‐ l'amministrazione fiscale italiana (si vedano le due lettere protocollo 2010/39678 e 2010/157346) ‐ ha deciso, più o meno, che il fatto non sussiste. A condizione, però, che le Entrate si attengano, nelle contestazioni, alle procedure descritte nelle due risposte, ora rese pubbliche dall'Aidc.

L'Agenzia ha infatti chiarito che la presunzione contenuta nell'articolo 73 facilita il compito del verificatore nell'accertare la residenza effettiva della società estera, ma non lo esonera dal dovere di dimostrare l'esterovestizione. Inoltre, il contribuente può fornire prova a suo discarico e ciò - in base alla risoluzione 312/E/2007 - sulla base di dati documentali e di tutti gli «elementi concreti, da cui risulti, in particolare, il luogo in cui le decisioni strategiche, la stipulazione dei contratti e le operazioni finanziarie e bancarie siano effettivamente realizzate». Per esempio, si possono portare come prova le delibere del cda prese all'estero, le ricevute di biglietti aerei e le fatture per le spese di soggiorno. D'altra parte, l'Agenzia ha ammesso la collaborazione con le autorità degli altri Stati Ue per stabilire «l'effettiva localizzazione all'estero del place of effective management» e per conoscere la composizione societaria.

La decisione della Commissione Ue di archiviare la denuncia ha destato perplessità nell'Aidc, nel presupposto che l'onere della prova tocchi, in misura prioritaria, all'amministrazione finanziaria. «Questo principio - spiega Joseph Holzmiller, presidente della Commissione Aidc - è stato sancito dalla Corte di giustizia nella sentenza 9 luglio 2009, causa C-397/07. I provvedimenti antiabuso, dice la sentenza, non possono essere fondati su un sospetto generale di frodi. Essi possono essere adottati solo caso per caso, per evitare costruzioni di puro artificio, prive di effettività economica e finalizzate a eludere l'imposta: in questi casi l'onere della prova della natura fraudolenta o artificiosa dell'operazione grava sulle autorità nazionali».

L'iniziativa dell'Aidc comunque ha 'costretto' l'Agenzia a mettere nero su bianco i principi per i verificatori. «In caso di scostamento - commenta Holzmiller - viene leso il principio di proporzionalità, con conseguente illegittimità comunitaria dell'esterovestizione. Le risposte dell'Agenzia non hanno, in questo caso, il semplice valore di una circolare o di una risoluzione, ma quello di una sorta di 'interpretazione obbligatoria', altrimenti la norma sarebbe stata considerata illegittima dalla Ue».

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