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Questo articolo è stato pubblicato il 25 luglio 2013 alle ore 06:45.

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La regola del valore normale può trovare applicazione anche per le transazioni infragruppo tra aziende collocate all'interno del territorio nazionale (transfer pricing interno). A fornire questo principio è la Corte di Cassazione, con la sentenza 17955 depositata ieri che oltre a interpretare in modo singolare la norma di riferimento, contraddice una recente pronuncia della medesima Corte che, di recente, era giunta a conclusioni esattamente opposte
La vicenda trae origine dalla contestata sottofatturazione di alcune cessioni (ricarico del 10% in luogo del 4%) effettuate da una società ad altra impresa dello stesso gruppo, ubicata nel mezzogiorno di Italia che, al tempo, usufruiva di agevolazioni fiscali. Secondo l'amministrazione così operando era stata allocata materia imponibile prezzo l'azienda che beneficiava delle agevolazioni fiscali, per il contribuente, invece, si trattava di una strategia precisa per incentivare l'attività dell'azienda del Sud Italia anche per favorire l'occupazione.
La commissione regionale, sostanzialmente, condivideva le tesi difensive. I giudici di legittimità, invece hanno ribaltato il verdetto di secondo grado, rilevando, tra l'altro, che la disciplina sul transfer pricing internazionale, in base alla quale i componenti di reddito derivanti da operazioni infragruppo con società residenti sono valutati al valore normale, costituisce una clausola antielusiva. Tale regola non solo trova radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto, ma è anche immanente in settori del diritto tributario nazionale.
A tal fine viene citata la sentenza della Corte di Cassazione n. 22023/2006. La pronuncia tuttavia non rileva che molto più recentemente con la sentenza n. 23551 depositata il 20 dicembre 2012, la stessa sezione della Corte aveva precisato che non si applica il valore normale per le transazioni infragruppo se le società hanno sede in Italia. La presunzione, infatti, riguarda soltanto i rapporti internazionali tra imprese del medesimo gruppo.
Non vi è dubbio che facendo riferimento, sempre e comunque, alla "generale" clausola antiabuso di derivazione costituzionale diventa legittima qualsivoglia rettifica per la quale l'amministrazione non sia in grado di trovare una specifica violazione di legge.
Occorre a questo punto chiedersi quale senso abbia la norma del Tuir che impone la valutazione delle transazioni infragruppo al valore normale solo in ambito internazionale se poi amministrazione e giudici di legittimità la ritengono estensibile anche in ambito nazionale. Nella specie, peraltro, anche volendo applicare la generale clausola antiabuso auspicata dalla Corte, non viene tenuto in alcun conto la giustificazione addotta dal contribuente: i prezzi inferiori al valore normale sarebbero la conseguenza di una strategia di decollo dell'azienda in zona svantaggiata ed il ricarico minimo rappresentava uno strumento di incremento anche occupazione e sociale oltreché aziendale. In tale contesto è singolare che i giudici di legittimità, proprio invocando l'abuso del diritto (che ammette la prova delle ragioni extra fiscali dell'operazione apparentemente antieconomica), anzichè cassare la pronuncia richiedendo ai giudici di merito la verifica e la motivazione della effettiva esistenza di tali ragioni extra fiscali, abbiano cassato richiedendo l'applicazione del valore normale anche alle transazioni nazionali infragruppo.

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