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Questo articolo è stato pubblicato il 27 dicembre 2013 alle ore 07:18.
L'ultima modifica è del 27 dicembre 2013 alle ore 07:19.

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Ancora non si chiamava decreto omnibus o milleproroghe, ma la sostanza era già chiara: a fine anno, tra Natale e Capodanno, un provvedimento ad hoc interveniva a far felice alcune mirate categorie di italiani. E in questo marketing politico la Prima Repubblica era maestra. Esattamente quarant'anni fa, in questi giorni, si metteva a punto uno dei provvedimenti che solo con il tempo diventò tra i più contestati, indicatore di come la politica sia capace di viaggiare in direzione opposta rispetto all'interesse collettivo.

Era il 29 dicembre 1973 quando il governo di Mariano Rumor inaugurò la controversa stagione delle baby pensioni, con un Dpr (decreto del presidente della Repubblica, all'epoca Giovanni Leone) destinato ai dipendenti pubblici che avessero lavorato per 14 anni, sei mesi e un giorno, se donne sposate e con figli; meno generose (si fa per dire) le condizioni per gli altri, ossia 20 anni per gli altri statali, 25 anni per i dipendenti degli enti locali (in epoca pre-federalismo, ancora pochi).

Andarono in pensione poco più che trentenni che avevano iniziato presto a lavorare, incassando oltre al denaro, quello che divenne un totem del sistema della contrattazione italiana: il diritto acquisito. Un "diritto" sancito da una norma legislativa, com'è d'uso, la cui copertura viene però data in carico alle generazioni future. Quanto? Secondo alcune stime si tratta di circa 7,5 miliardi di euro l'anno – una volta e mezzi l'Imu sulla prima casa -, destinati a un plotone di babypensionati. Quanti? In totale circa 400mila persone. I calcoli li ha fatti tempo fa la Confartigianato: in 17mila hanno smesso di lavorare a 35 anni di età mentre altri 78mila sono andati in pensione tra i 35 e 39 anni. E visto che la loro aspettativa di vita stimata è di circa 85 anni, i baby pensionati incassano durante la loro vita almeno il triplo di quanto hanno versato durante la loro attività lavorativa.

L'idea di varare questo provvedimento nacque alla vigilia delle elezioni amministrative in cui la Democrazia Cristiana, il partito di Rumor, fece il pieno di voti. Il 1973 era stato l'anno dello Yom Kippur, del Watergate e della crisi petrolifera e l'Austerity che proprio Rumor, il 2 dicembre precedente, aveva imposto con domeniche a piedi e tv spenta alle 22,45, per contrastare la carenza di energia. Eventi tutti entrati nei libri di storia ed usciti dalla cronaca e dalla contabilità. A differenza che in Italia, dove le baby pensioni sono contabilizzate come liabilities, uscite previste cioè, al pari delle pensioni minime e delle pensioni d'oro. Con tutto ciò che ne segue in termini di equità, per chi le pensioni percepisce e per chi le incassa.

E poi c'è l'effetto prodotto in modo indiretto dalle baby pensioni: ne hanno beneficiato le donne che sono uscite dal mondo del lavoro sottraendo il loro contributo all'economia reale, in termini di cultura e competenza, riducendo la domanda di servizi per la famiglia (asili nido, in primis), riducendo così la creazione di nuovi posti ldi lavoro che all'epoca erano meno "costosi" (vedi alla voce cuneo fiscale) di oggi ; e quindi innalzando il tasso di tutela finanziaria del pubblico sul singolo, hanno ridotto la forza di intrapresa dei singoli nel tessuto sociale. Il che, insieme alle svalutazioni competitive e all'evasione fiscale, ha posto le basi del declino economico italiano di questi anni.

Franco Marini, all'epoca appena entrato nella segreteria Cisl, ricordava tempo fa al Messaggero: "Sì, è vero che non c'era nella classe politica né nel corpo della stato di allora una grande consapevolezza di quello che sarebbe accaduto, dell'impatto che l'allargamento del welfare avrebbe avuto sui conti pubblici. Però il provvedimento sulle baby-pensioni causò sin da subito una forma di imbarazzo anche nel sindacato che a quel tempo aveva un fortissimo potere contrattuale nei confronti della politica. Era una norma squilibrata. Ci fu disagio nei confronti dei lavoratori privati che erano esclusi da quel trattamento. Anche se qualcuno riteneva che il baby-pensionamento compensasse il fatto che i dipendenti del privato avessero avuto fino a quel momento salari molto più alti".

A poco è servita la retromarcia decisa meno di dieci anno dopo il decreto Rumor, quando a Tangentopoli esplosa, un altro provvedimento omnibus di fine anno, il decreto legislativo 503 del 30/12/1992 ("Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421"), corse a cancellare la possibilità di smettere di lavorare e incassare una pensione ancora nel fiore degli anni (gli stessi, all'incirca, in cui i precari di oggi provano riescono nelle migliori delle ipotesi a entrare nel mondo del lavoro). Restò il conto da pagare: un esborso per la previdenza pubblica pari a circa lo 0,4% del Pil nazionale l'anno.

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