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Il giudice riscrive il dizionario dell'ingiuria

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 maggio 2010 alle ore 08:08.

L' asticella dell'ingiuria si sposta di continuo. Lo sanno bene i giudici della Cassazione che giorno dopo giorno si confrontano con i mutamenti del comune sentire. E così anche per le offese alla persona, dove l'illecito non sembra più circoscritto solo all'uso di termini volgari. Anzi, il turpiloquio è sempre più spesso tollerato: ormai se qualcuno ci manda a quel paese difficilmente riusciremo a sporcargli la fedina penale. Al contrario, ci può scappare una condanna per ingiuria per l'uso di termini tutto sommato meno volgari.

Nel dizionario dei vocaboli proibiti stilato dai giudici trova così spazio l'aggettivo «lewinskiana», che evoca la stagista di Bill Clinton, riferito a donna. Sul fronte delle offese di genere è recente la censura della frase «sarebbe meglio un uomo» attribuita a un sindacalista che, in un'intervista, valutava la gestione di un istituto penitenziario diretto da una donna. Un giudizio messo all'indice dalla Cassazione che ha confermato la condanna a intervistato e intervistatore. Penalmente rilevante anche l'espressione «gay», se pronunciata con l'intento di offendere.

C'è poi il capitolo delle minacce e delle maledizioni. Magari un po' forti, come l'"augurio" di morire di un male incurabile, che è costato la condanna a chi lo ha espresso. Mentre «ti faccio vedere i sorci verdi» non è ritenuto un avvertimento da sanzionare, ma solo l'intenzione di far valere le proprie ragioni con ogni mezzo.
È reato dire che gli ebrei non rispettano le leggi, così come va condannata l'affermazione «Italiani di m...», ma senza l'aggravante del sentimento razzista. Mentre la scorsa settimana la Cassazione ha stabilito che definire «neonazisti» o «nazifascisti» i partecipanti a una manifestazione di Forza Nuova, movimento di estrema destra, rientra nel diritto di critica. Sull'abuso di espressioni colorite nell'ambito della politica, peraltro, sempre più spesso si chiude un occhio.
E se sull'uso delle parole la letteratura giuridica è abbondante, ancora tutta da scoprire è invece la rilevanza dell'uso del corpo come strumento di offesa. Quanto meno ondivago può essere definito l'atteggiamento dei giudici sul punto. Perché è da vietare la linguaccia, mentre non entra in conflitto con il bon ton chi si lascia andare a vibrazioni da Oktoberfest. Salvo querelare poi chi gli dà del maiale, vincendo peraltro la causa.

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Tags Correlati: Bill Clinton | Corte di Cassazione | Forza Nuova |

 

Non si può dire «vaffa...» al dirimpettaio, ma si può dare del «compagno di merende» all'avversario politico. La Cassazione risente dei cambiamenti culturali e li condiziona, analizza il linguaggio degli italiani e decide quali sono le parole da liberalizzare e quali quelle da censurare. Tante, forse troppe, le cause in cui i giudici sono costretti a interessarsi del turpiloquio degli italiani. I risultati sono a volte sorprendenti. La Corte sdogana il termine «cazzate» detto nel corso di un'assemblea di condominio, spiegando che per quanto «volgare e irrispettoso» il termine non fa scattare il reato. Restando all'interno di un palazzo diventa però prioritaria la tutela dei buoni rapporti con gli altri inquilini. Infrange il codice penale di chi offende il vicino dandogli del «vigliacco». Spostandosi in ufficio, il bon ton della Cassazione prevede la possibilità di dare del «pazzo» al capo – perché il termine, al pari di cretino e scemo, è ormai nell'uso comune –, ma proibisce di definire i colleghi dei «lecca c...», meglio chiamarli «yes man».

Risente dell'evoluzione del costume anche il trattamento che è lecito riservare ai politici, che, al pari dei partecipanti ai reality, godono di una scarsa protezione. Tramontati i confronti "in doppio petto" delle tribune politiche in bianco e nero c'è un deciso via libera al colore, soprattutto nel linguaggio. Al rappresentante di uno schieramento avverso si può dire che è un «rimbambito», esercitando legittimamente il diritto di critica, o bollarlo come «compagno di merende» se è provato un legame di questo con personaggi equivoci. Piuttosto indulgente con i maleducati, la Cassazione è però intransigente con gli educatori. Condanna così la preside che dà dell'incompetente alla prof davanti agli allievi e per diffamazione anche la maestra che chiama «bestia» un alunno.
Maglie strette contro il razzismo, con una pronuncia che apre la strada al processo anche senza querela, nei confronti di chi dimostra odio etnico. Così usando l'espressione «sporca marocchina» si unisce all'ingiuria l'aggravante del disprezzo razziale, che rende inevitabile il rinvio a giudizio.

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