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Riparte da ingegneria a Padova la caccia agli errori della riforma Gelmini

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Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2010 alle ore 21:55.

Il malcontento per i tagli all'università e la riforma prevista dal disegno di legge Gelmini monta sempre più: non solo gli esami all'aperto come forma di protesta svolti da diversi atenei italiani, ma anche sospensione della programmazione didattica, con conseguente rinvio delle immatricolazioni e dell'inizio dell'anno accademico. Questo accade alla facoltà di ingegneria di Padova, e nei prossimi giorni potrebbe essere deciso anche in quella di scienze e in altre università della penisola.

Una protesta dal basso, senza un coordinamento nazionale, che coinvolge non solo i ricercatori, ma anche i professori. Tanto che il rettore dell'Università di Padova, Giuseppe Zaccaria, ha indetto oggi una conferenza stampa dove ha lanciato un «preoccupato appello», per la situazione «difficile e drammatica» degli atenei.

Zaccaria, attorniato da tutti i componenti dell'università, dai prorettori ai borsisti, ha scelto come palcoscenico per il suo appello la tenda blu davanti al Bo, divenuta da una settimana il simbolo della protesta. Nel suo intervento Zaccaria ha ripercorso i temi di un documento da lui stesso redatto che ha diramato alle istituzioni, ai parlamentari, alla città, all'opinione pubblica, alla società civile.

«Nessuno tra quanti ogni giorno sono attivi nei nostri atenei - ha spiegato - può sensatamente negare l'esigenza di una riforma delle università italiane che ponga fine a scelte discutibili e onerose per il Paese. Perciò l'università di Padova non ha espresso una pregiudiziale linea di contrarietà al disegno di legge 1905, ma ha puntualmente indicato i gravi errori presenti in punti nodali dell'attuale formulazione, dall'impianto fortemente centralistico e contrario all'autonomia delle sedi, alla mancanza di risorse per il funzionamento degli atenei, all'abolizione della figura del ricercatore di ruolo, auspicando un profondo ripensamento ed una sostanziale correzione nelle aule parlamentari». Zaccaria è stato ricevuto settimana scorsa dal presidente della Repubblica, e la sua università si è posta come capofila del gruppo di atenei che ha espresso in modo netto la contrarietà all'impostazione del decreto 1905.

«L'università di Padova – si legge nel documento – vuole lottare per continuare a rifiutarsi di credere che l'istituzione universitaria stia definitivamente annegando». Solidale con l'azione di protesta dei docenti e ricercatori, Zaccaria chiede tuttavia di non dare vita ad azioni di dissenso che rendano difficoltoso o addirittura impossibile l'avvio dell'anno accademico. La protesta si sta infatti facendo sempre più dura: «La facoltà ingegneria ha sospeso la programmazione didattica del prossimo anno: così non è possibile far partire il nuovo anno accademico, spiega Paolo Guiotto, ricercatore della facoltà di scienze, consigliere comunale e animatore della protesta -. Mercoledì deciderà la facoltà di scienze».

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Tra i principali motivi del malcontento vi è, secondo Guiotto: «Il taglio orizzontale di 1 miliardo di euro in 5 anni già pianificato nel 2008 (che significa 43 milioni di euro, l'anno prossimo, per l'università di Padova), un taglio molto ingente se si pensa che quello previsto nell'ultima finanziaria per tutti comuni italiani è di 1,5 miliardi di euro, tagli che, nel 2012 determineranno una situazione che porterà in perdita i bilanci degli atenei: le spese di mantenimento e gestione saranno il 112% delle entrate, attualmente siamo all'87%».

Ma ciò che più preoccupa i giovani universitari è la mancanza di prospettive: «Il blocco del turnover che fa sì che ogni 5 professori che vanno in pensione se ne assuma solo uno, blocco che provocherà un forte invecchiamento dell'età dei docenti e che lascerà a spasso moltissimi giovani» dice Guiotto, che aggiunge alla lunga lista degli elementi di malcontento «i tagli agli stipendi previsti dall'ultima finanziaria che sono definitivi e che vanno a penalizzare soprattutto i giovani (secondo i calcoli di lavoce.info il taglio medio a un ordinario è del 10%, quello ai ricercatori neoassunti è del 27%). Infine l'abolizione del ruolo di ricercatore: il disegno di legge 1905 prevede solo assunzioni a tempo determinato, senza garanzie di poter restare dopo i sei anni di contratto».

«Questo disegno di legge prevede un percorso in media di 10-13 anni di precariato per un giovane dottorato, è insostenibile, favorirà la fuga dei giovani più bravi, e questo sarà deleterio per il paese» afferma Roberto Monti, ricercatore di matematica che si definisce semplicemente «uno dei tanti che a un certo a deciso che bisognava provare a fare qualcosa. «Se tutto va bene si entrerà a lavorare nell'università a 37 anni» gli fa eco Guiotto. «senza considerare che c'è un'ondata di pensionamenti, sia strutturale sia dovuta al peggioramento delle condizioni di lavoro» spiega Monti.

Sotto accusa anche la concentrazione di potere nelle mani del rettore, di un consiglio di amministrazione esterno e degli ordinari. «Grottesco dopo tutto quel che si dice da anni contro i ‘baroni universitari», dice Monti. «Ci sentiamo sotto assedio, attaccati su tutti i fronti – continua –. I ricercatori hanno deciso di reagire in modo legale: attenersi alla legge e dunque non fare lezioni in classe, lezioni che prima tenevano a titolo di volontariato, e che nell'università italiana rappresentano il 30% di tutti i corsi offerti». «I docenti, a loro volta, si sono impegnati ad attenersi al minimo di legge per quanto riguarda le lezioni, in modo da non ricoprire i vuoti lasciati dai ricercatori», spiega Guiotto.

«Ci stiamo ponendo molti dilemmi morali – conclude Monti – questa protesta significherà mettere studenti e famiglie in situazione di grave disagio. Per noi sarà anche doloroso rinunciare ad attività didattica. Siamo lacerati, ma di fronte a questi attacchi concentrici e anche a questo disinteresse generalizzato non sappiamo più che strumenti usare per comunicare alla società italiana che è necessaria una diversa politica della ricerca».

A un dibattito sulla fuga dei cervelli organizzato giovedì scorso dai medesimi ricercatori ha partecipato tra i relatori anche Jacopo Silva, vicepresidente di Confindustria Padova con delega al rapporto con le università e presidente dei Giovani industriali. Il suo intervento ha entusiasmato molti ricercatori presenti. Gli abbiamo chiesto di riassumere la sua posizione: «Si è sempre fatto l'errore di considerare l'università materia per universitari, invece è un argomento che deve appassionare tutti, perché il cuore della società – spiega Silva – oltre all'insegnamento, l'università ha due compiti molto importanti: garantire la democrazia, perché forma i cittadini, ed essere il motore della mobilità sociale. È un'istituzione fondamentale per il paese, come la sanità e parlamento. Con l'amore che ho per l'università dico però che sono un innamorato tradito: siamo fra i paesi con la minore mobilità sociale del mondo: questo significa che l'università non funziona bene. Questi ricercatori che oggi protestano non sono responsabili, però non si può chiedere più fondi se non si chiede anche riformare l'università. Io non vedo meritocrazia, ma patria del nepotismo. E la mancanza di meritocrazia impedisce all'università di svolgere il suo ruolo verso la società, quello di promuovere la mobilità sociale».

Silva porta un altro esempio: «Non c'è la cultura dell'eccellenza, della vera selezione. La cultura del livellamento al ribasso, che sembra tanto democratica, in verità danneggia i più deboli, perché se diamo un titolo a tutti, ma questo non vale niente, i più danneggiati sono quelli che partono da posizioni più svantaggiate. Ma in un'università che riceve fondi in base al numero di laureati non si favorisce la cultura dell'eccellenza». E ancora: «Anziché creare centri di eccellenza si sono fatte le università periferiche: cattedre su cattedre, che non garantiscono qualità. E allora, da innamorato della ricerca quale sono, sostengo che se senza una riforma profonda non possiamo aprire il ragionamento sui finanziamenti. Ma poi mi arrabbio ancora di più, perché oggi si fanno tagli orizzontali, allora questa non è una vera riforma, non si premia il merito». Ai ricercatori Silva dice dunque: «Sì alla lotta contro i tagli, no alla difesa dello status quo. Non bisogna ripristinare i fondi per lasciare tutto come è".

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