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Finanza e Mercati In primo piano

Quel crack sui mutui che ha stravolto i mercati mondiali

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Questo articolo è stato pubblicato il 30 agosto 2010 alle ore 08:16.
L'ultima modifica è del 30 agosto 2010 alle ore 08:17.

Per chi s'era occupato di finanza e soprattutto della crisi del credito, che aveva squassato ormai mezzo mondo, fine agosto 2008 sembrava un buon momento per prendersi una lunga vacanza in qualche posto sperduto della Terra dove non arrivavano i giornali e persino internet era fuori portata. Dando retta agli economisti, si sarebbe ricavata la sensazione che la bufera sui mercati, sulle banche e sulle principali istituzioni finanziarie internazionali si stava allontanando. Dopo oltre un anno di affanni, era un buon momento per un lungo viaggio.

Ma se, verso la metà di settembre, il nostro escursionista fosse riuscito a collegarsi con qualche sito web, avrebbe avuto la sensazione che il mondo stava crollando o, quanto meno, che stesse collassando l'intero sistema finanziario occidentale. Il 7 settembre Henry Paulson, ministro del Tesoro dell'ultra liberista amministrazione Bush, nazionalizzava Fannie Mae e Freddie Mac, i due colossi che da soli garantiscono la metà dei 12mila miliardi di dollari di mutui casa in America. Non l'avesse fatto, sarebbe fallito, assieme alle due società, l'intero sistema.

Lehman Brothers, una delle più antiche banche d'affari del Paese, Paulson la lascia fallire, sottovalutando l'effetto domino che avrebbe scatenato. E il 15 settembre, all'apertura dei mercati, è il panico: sulle Borse che precipitano e sui titoli di Stato che, invece, vengono presi d'assalto. Il giorno prima, anche la gloriosa Merrill Lynch fu costretta ad arrendersi, facendosi acquistare da Bank of America: in sostanza, un salvataggio per la somma di 50 miliardi che a quel tempo era parso un prezzo da «svendita».

Il 16 settembre, il Tesoro Usa è costretto a salvare anche Aig, la più grande assicurazione statunitense e, fino a qualche mese prima, la più grande al mondo. Invece di costruire polizze danni e vita, la società s'era messa in testa di fare finanza innovativa e aveva inondato il mercato di credit default swap: anche questi, in un certo senso, prodotti assicurativi, che avrebbero dovuto proteggere i compratori dall'eventuale fallimento delle aziende. Per gli ingegneri finanziari di Aig, i Cds sembravano la manna, perché rendevano più delle tradizionali polizze e perché non si doveva nemmeno accantonare riserve per coprirli. Senza gli 85 miliardi ricevuti dal Tesoro, la compagnia sarebbe fallita.

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Paulson e l'amministrazione Bush per un po' si sono illusi che il sistema fosse stato salvato. Ancora non avevano capito che i soldi spesi per Fannie, Freddie e Aig erano solo degli anticipi; così come una prima rata doveva rivelarsi il grande piano di salvataggio da 750 miliardi organizzato in quei giorni da Paulson, Ben Bernanke, presidente della Fed e da Timothy Geithner (a quel tempo presidente della Fed di New York).

Un anno dopo, il costo della crisi doveva rivelarsi ben più salato e già superava i 5mila miliardi di dollari, ben più dei 3.600 spesi nella seconda guerra mondiale, sei volte più di tutti i soldi ricevuti dalla Nasa. E non era ancora arrivato il momento per tirare una linea alla lista delle uscite, poiché la Fed conclude solo nel marzo 2010 gli acquisti di titoli cartolarizzati, di obbligazioni e di Treasury. Soldi in parte virtuali, si dirà, visto che la banca centrale americana può stampare abbondante denaro. In ogni caso un costo sociale enorme, perché le spese non sono finite (si pensi alla riforma della sanità), perché gran parte dei municipi degli Stati Uniti sono di fatto in fallimento (e ci sono quasi 200 miliardi di bond in circolazione) e soprattutto perché la crisi non è ancora finita. Ora è crisi anche per i debiti degli Stati sovrani.

Come in tutti i grandi sconvolgimenti dell'economia e della finanza mondiale, sono stati in pochi ad avvertirne la gravità fin dall'inizio. Già, ma quando è iniziata quella che con enfasi è stata descritta come la «peggior recessione dagli anni Trenta» e che da un anno a questa parte troppe istituzioni finanziarie hanno tentato, invece, di esorcizzare ricreando la situazione ex-ante? A voler essere pignoli, forse già dall'estate del 2006, perché vi fu chi comprese (come l'hedge fund di John Paulson e gli stessi trader di Goldman Sachs) che sarebbe crollato il sistema dei mutui subprime, ossia di quei prestiti spensieratamente concessi alle famiglie di dubbia capacità economica per acquistare una casa. Ma questa sarebbe una forzatura.

Diciamo che il primo campanello d'allarme trilla il 7 febbraio 2007, quando New Century, una sconosciuta banca della California, dichiara d'essere in difficoltà con i mutui subprime. Nessuno le dà retta. E per quanto Nouriel Roubini già da qualche tempo (a dire il vero da anni) lanciasse cupi messaggi di un tracollo finanziario ed economico, il caso New Century resta isolato e inascoltato. Nel giugno i pericoli di un contagio esteso agli altri mutui casa cominciano a essere avvertiti sui mercati del credito. In quel mese anche il pubblico dei non addetti ai lavori inizia a sentire parlare di leva finanziaria, Cdo, Clo e di altre diavolerie create da una innovativa ingegneria finanziaria che, a partire dagli anni 90, condizionerà il mondo intero.

La certezza della crisi diventa evidente ad agosto: si scopre che banche e assicurazioni avevano enormi attività fuori bilancio (in veicoli chiamati conduit e Siv), gli operatori cominciano a diffidare gli uni degli altri, nessuno vuol comprare più commercial paper e il costo del denaro cresce rapidamente. Ragionevolmente si può dunque sostenere che la tempesta peggiore degli ultimi 70-80 anni sia partita 3 anni fa, nell'agosto 2007, quando schizza il prezzo dei credit default swap sui bond societari, iniziano a crollare i rendimenti dei titoli di stato (il Treasury decennale Usa tocca il massimo, al 5,3%, il 12 giugno) e infine anche Wall Street subisce il primo scossone.

Ma quasi nessuno avverte che quella sarebbe stata una «tempesta perfetta». Per mesi s'è creduto dovesse trattarsi solo di una crisi del credito, per i troppi debiti contratti, e le borse, difatti, si mantengono vicine ai massimi fino al giugno 2008 e i prezzi delle materie prime toccano un picco a luglio: lontani come si era dal pensare che sarebbe seguita una recessione. E lontani dal capire cosa stava succedendo erano pure gli economisti. Quei 60 interpellati dal Wall Street Journal nella primavera 2007 avevano sentenziato: «Il peggio della crisi immobiliare è alle nostre spalle».

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