Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2010 alle ore 08:05.
Anni e anni di fede incondizionata nella «mano invisibile» spazzati via in pochi giorni: la tempesta che ha investito il mondo del credito negli ultimi 3 anni, in fondo, è anche questo. Messi alle strette dalla prospettiva del collasso dell'intero sistema finanziario, gli stati non hanno avuto altra scelta se non quella di intervenire in soccorso alle banche e abdicare così alle leggi del mercato, con buona pace delle teorie neoliberiste. Ma dalle banche, la crisi si è propagata agli stati, e dagli stati di nuovo alle banche, creando un vortice del quale si fatica a vedere la fine e le cui conseguenze ricadranno sulle generazioni future.
Fare un passo indietro è forse utile per capire come si sia creato un simile meccanismo perverso. Il culmine della tempesta lo si raggiunge nelle convulse settimane che seguono il crack Lehman. Quando è chiaro che la regola del «too big to fail», troppo importante per essere lasciato al proprio destino, non vale più e quando risulta ormai lampante il grado di coinvolgimento dell'intero sistema bancario, tanto negli Stati Uniti quanto in Europa, scatta il panico. Si creano così le interminabili file di clienti impauriti che vogliono ritirare il proprio denaro, scene viste qualche anno prima in Argentina e che si pensava irripetibili nei paesi avanzati. La sfiducia è totale: non passa giorno senza che si diffondano voci allarmistiche su imminenti fallimenti di gruppi bancari fino ad allora ritenuti il simbolo della solidità. Persino in Italia, dove in fin dei conti le banche si erano esposte in modo relativamente limitato su mutui subprime e derivati, si teme da un momento all'altro la catastrofe.
Lo specchio della crisi è rappresentato dai mercati interbancari, quelli in cui gli istituti di credito si scambiano il denaro per finanziarie le attività di tutti i giorni. Il tasso Euribor a tre mesi, cioè il prezzo per ricevere in prestito i soldi a termine, è fuori controllo e vola oltre il 5 per cento. Ma in fondo si tratta di un valore fittizio: nessuno si fida ormai più a prestare un centesimo da un giorno all'altro, figuriamoci per un periodo così lungo. La realtà è che il mercato, di fatto, è congelato e molte banche non sanno più dove sbattere la testa per trovare i finanziamenti.
Fiumi di denaro pubblico L'intervento, a questo punto, non più è rimandabile e ciascuno deve fare la propria parte per tentare di salvare il mondo finanziario dalla catastrofe. Il dispiegamento di forze è senza precedenti: le banche centrali scendono in campo chi comprando dagli istituti di credito quei titoli che hanno provocato la crisi e che nessuno vuole più acquistare, chi allargando il ventaglio di garanzie che le banche possono offrire in cambio dei finanziamenti, chi concedendo denaro in quantità illimitata e a tassi di favore a tutti gli istituti di credito che ne fanno richiesta.
Ai governi dei singoli stati resta invece il compito gravoso di finanziare direttamente le banche in difficoltà, ricapitalizzandole e assumendosi gran parte dei debiti che stanno minacciando la loro stessa sopravvivenza. Un fiume di denaro pubblico viene destinato a favore delle banche: Bloomberg indica una cifra complessiva superiore ai 500 miliardi di euro, ma c'è chi alza il prezzo. Uno studio recente curato da Alan Blinder (Princeton University) e Mark Zandi (Moody's) stima per i soli Stati Uniti una cifra pari a 1.590 miliardi di dollari di interventi diretti, ai quali si devono aggiungere 750 miliardi di mancate entrate fiscali per via della recessione. Per i bilanci dei governi, già alle prese con le misure di stimolo per tentare di uscire dalla recessione, è il colpo finale. Neanche un paese storicamente virtuoso come la Germania può sottrarsi ai doveri e subire l'onta di un deficit pubblico superiore al 5% del prodotto nazionale: di colpo i dogmi del trattato di Maastricht diventano poco più che carta straccia.
Ma il problema, ovviamente, non è circoscritto soltanto all'Eurozona: in Gran Bretagna, così come negli Stati Uniti, il rapporto fra il deficit e il Pil vola oltre il 10% e il debito pubblico si avvicina pericolosamente alla soglia del 100% della ricchezza nazionale. L'Ocse, addirittura, prevede che nel 2011 il passivo del settore pubblico di tutti i paesi industrializzati supererà il valore del Pil aggregato, non era mai successo in tempi di pace. Gli stati, insomma, producono più debiti che ricchezza e lasciano alle generazioni future un conto salato da saldare. Ma nell'immediato nessuno si preoccupa: c'è l'intero sistema finanziario da salvare, e ogni mezzo (e prezzo da pagare) è lecito.
Atene apre la «fase 2» della crisi I nodi vengono inevitabilmente al pettine dopo un anno: nell'autunno del 2009 è curiosamente un altro casus belli a scatenare la «fase 2» della grande crisi. E così, dopo Lehman, tocca alla «piccola» Grecia spaventare il mondo: sulla carta il paese ellenico vale in termini di Pil poco più del 2% dell'Eurozona e non è certo tra quelli intervenuti in modo più pesante per salvare le banche. Ma sui suoi conti pubblici aleggia più di un sospetto e quando il primo ministro George Papandreou, appena insediato, ammette che il deficit è ben più elevato di quanto fino ad allora si pensasse scatta immediatamente la ritorsione fra gli investitori: nessuno appare più disposto a comprare titoli del debito di Atene ai prezzi correnti e i tassi di interesse si impennano. Anzi, di fatto non esiste più mercato: una scena già vista qualche mese prima. Solo che ora non sono le banche a tremare, ma uno stato.
La Grecia sembra avere le ore contate: da più parti si dà per inevitabile il suo fallimento o si parla di un'uscita dall'Unione monetaria. E mentre i governi d'Europa litigano sulla necessità e sulle modalità di un intervento, l'incendio si propaga con rapidità anche agli altri paesi dell'area mediterranea, i cosiddetti «periferici», e anche l'euro ne fa le spese. A questo punto, la fantasia degli operatori si scatena di pari passo ai (presunti) attacchi degli speculatori e nascono nuove sigle per definire i paesi presi di mira: ai tradizionali «Pigs», Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, si aggiunge un'altra «i» per includere anche l'Irlanda tra i paesi che secondo gli anglosassoni sarebbero poco affidabili.
Dalle banche, insomma, la crisi si è definitivamente trasferita agli stati. Con un'ulteriore aggravante: a finanziare i governi, in fin dei conti, sono in primo luogo quelle stesse banche da loro salvate, che in portafoglio hanno una montagna di titoli di stato. Soltanto gli istituti di credito del vecchio continente, secondo le stime della Banca centrale europea, deterrebbero obbligazioni governative per un valore di oltre 1.500 miliardi di euro. Ma ciò che è più preoccupante, è che molte di esse hanno fatto incetta di titoli approfittando proprio del denaro ottenuto a tassi di favore dalla Bce: indebitarsi all'1% per riacquistare attività finanziare con rendimento più elevato, come i bond governativi dei paesi «periferici», era in fondo un giochino semplice. Ha avuto successo fino a quando la crisi del debito sovrano non ha costretto le banche a nuove svalutazioni, mettendo così in dubbio ancora una volta la loro solidità.
Chi salva e chi finanzia, in questo nuovo scenario, si scambia in continuazione il testimone o, se si preferisce, il cerino acceso. L'intervento congiunto di Bce, Fondo monetario internazionale e Commissione europea, con il maxipiano da 750 miliardi di euro varato 3 mesi fa, ha per il momento contribuito a calmare le acque. Una quiete destinata a durare fino a quando il mercato non inizierà a preoccuparsi per lo stato di salute dei nuovi «salvatori».