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Dolci, cibo impacchettato e tanto pollo: ecco cosa mangeremo nel 2050

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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2010 alle ore 18:21.

I vegetariani si mettano l'anima in pace e la smettano di citare la sensibilità animalista di Gandhi e Tolstoj di fronte all'amico che addenta la fiorentina. Entro cinquant'anni sulle tavole di tutto il mondo, infatti, ci sarà sempre più carne, insieme ad altri alimenti dolci e grassi. È stata la Royal Society di Londra a indagare cosa passerà sotto il palato dell'umanità fra cinquant'anni: su commissione del governo britannico, ha pubblicato i primi risultatai della ricerca "Food security: feeding the world in 2050", firmata da ricercatori di tutto il mondo, che sarà presentata nella sua versione finale a fine anno, alla Conferenza Onu sul Clima di Cancun.

Climatologi, esperti di allevamento, nutrizionisti e sociologi hanno incrociato dati relativi alle fonti di energia e al consumo di acqua, al suolo disponibile, all'urbanizzazione, e hanno steso il menù dei 9 miliardi di persone che vivranno sul pianeta nel 2050. Innanzitutto, per sfamare tutti, la produzione globale dovrà aumentare del 70% e dovrà anche migliorare in termini qualitativi per soddisfare un maggior fabbisogno calorico, già cresciuto dalle 2411 kcal del 1969 alle 2789 del 2001. A segnare il rialzo è stato il consumo di carne, appunto, che segnerà un sensibile rialzo anche in futuro, soprattutto nei paesi in via di sviluppo.
Già negli ultimi 30 anni, riporta la ricerca, la produzione di carne nel mondo è passata dai 45 milioni di tonnellate del 1980 ai 134 del 2002, con un terzo della superficie terrestre occupato da allevamenti e un giro d'affari da 1,4 trilioni di dollari. E in Cina il consumo di proteine animali è aumentato di nove volte dagli anni sessanta.

Ora, visto che il pianeta non può diventare un enorme e inquinante allevamento, come risolvere l'equazione fra esigenze nutrizionali e sostenibilità? P. K. Thornton, ricercatore dell'International Livestock Research Institute di Nairobi, dà una risposta sconcertante: nei prossimi dieci anni si inizierà a produrre carne in vitro e si investirà in nanotecnologie e miglioramenti genetici che massimizzeranno ciò che si può ricavare da ogni animale. Se la prospettiva dell'arrosto cresciuto in barattolo fa venire i brividi, dice Thornton, i benefici per l'umanità e il pianeta sarebbero però infinitamente più soddisfacenti.

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Forse, però, la carne di laboratorio resterà fantascienza, perché a salvarci vita e palato sarà il pollo. Il consumo della sua carne sta crescendo esponenzialmente in tutto il mondo, persino nella vecchia Inghilterra ha superato il tradizionale manzo. E poi il volatile produce anche le uova, altra importante fonte di proteine (il cui consumo, infatti, negli ultimi 50 anni è raddoppiato in tutto il mondo), ha un ciclo riproduttivo brevissimo e richiede spazi più contenuti per il suo allevamento. Il primo concorrente del pollo sarà il maiale, mentre il pesce resterà un consumo di nicchia, anche per il proliferare di limiti alla pesca in tutto il mondo. Lo stesso, purtroppo, accadrà per frutta e verdura: nonostante le produzioni siano aumentate, il loro consumo è ben lontano dalla razione giornaliera di 500 grammi raccomandata per una dieta bilanciata. Anche perché il loro prezzo resta troppo elevato per ampie fasce di popolazione, e non solo nei paesi in via di sviluppo.

Ma a determinare la cosiddetta "transizione nutrizionale" saranno anche massicci investimenti nel marketing del gusto, gestito da una manciata di multinazionali che spingeranno il gusto planetario verso un modello "occidentale" basato su carne, appunto, ma anche grassi e zuccheri, che potrebbero determinare un aumento dei malati di obesità e diabete, come sta accadendo in alcuni paesi del sud est asiatico.

Insomma, a salvare dalla carestia l'umanità sarà un'invasione di cibo industriale, igienico, massimizzato e piuttosto omogeneo. Questo vuol dire che dovremo dire addio alle microproduzioni, quelle chicche gastronomiche che racchiudono gusto e culture secolari? No, ma diventeranno ancor di più un consumo di nicchia. Da una parte, tramite lo sviluppo dell'agricoltura biologica, aumentata dell'82% negli ultimi tre anni, e a sorpresa in Cina e negli Usa. Ma visti gli alti costi di produzione, che ne mantengono elevato il prezzo di vendita, il cibo "bio" resterà privilegio per ricchi salutisti attenti alla sostenibiltà. Poi, a fare la guerra al cibo industriale resterà il millenario cibo "selvaggio", quello consumato da numerose quanto piccole popolazioni che proteggono così la biodiversità, le tradizioni culturali e si garantiscono anche buoni principi nutritivi: è il caso degli Aborigeni australiani, i Maori neozelandesi, ma anche degli Awajan del Perù amazzonico, che traggono dalla foresta ben 206 fonti di cibo fra animali e piante. Forse più di quante se ne possano trovare in un supermercato.

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