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Intervista a Tony Blair: «Berlusconi un amico, ma la sinistra può vincere se guarda al futuro»

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Questo articolo è stato pubblicato il 10 settembre 2010 alle ore 08:01.

«Impopolare? Diciamo controverso perché in politica se decidi, dividi». Tony Blair, 57 anni, svolazza da una stanza all'altra nel ridotto degli uffici di Grosvenor square dove promuove, a porte chiuse, la sua monumentale autobiografia. Ottocento pagine, epica densa del più longevo, politicamente parlando, premier laburista immortalato da sé stesso. Lo incontriamo poche ore dopo la cancellazione degli appuntamenti pubblici per la firma del volume e dopo il rinvio, sine die, del gran party che avrebbe dovuto celebrare l'evento editoriale dell'anno, con il libro che già si polverizza sugli scaffali delle rivendite del Regno e di mezza Europa.

Ha rinunciato a tutto ciò per le proteste di ultrà pacifisti e neo-fascisti del British national party, secondo la sua stessa ricostruzione. Una minoranza, dice l'ex premier britannico, oggi più asciutto che mai, ancora leggermente abbronzato, in abito grigio e camicia aperta sul collo. «Devo mettere la cravatta?». La corte che lo accompagna lo solleva dall'incombenza. Si accomoda e si comincia in una sequenza di immagini che incrociano David Cameron e Gordon Brown, Silvio Berlusconi, i destini della sinistra, quelli del Medio Oriente e quelli, più modesti, della famiglia Miliband.
«Come diceva lei ho vinto tre elezioni e quindi non parliamo di impopolarità. Tuttalpiù, lo ripeto, sono una figura controversa. Ma poi, stiamo attenti: se metti qualche immagine in televisione sembra che protesti tutto il paese ... e invece».

Poche centinaia lei dice, ma tutti concentrati sulla guerra in Iraq. Nel libro assolve sé stesso, ma se tornasse indietro che cosa farebbe di diverso?
L'intelligence fu evidentemente sbagliata nel valutare le armi a disposizione del regime. Quello che non capii era il radicamento del movimento ideologico estremista islamico. Ci siamo liberati di Saddam in due mesi, ma poi abbiamo dovuto combattere non certo contro il popolo iracheno, ma contro le infiltrazioni di al-Qaeda, le mosse dell'Iran. Solo nel 2007 si è compreso che la realtà era diversa.

La guerra che tanto le ha nuociuto non cancella l'immagine di innovatore che assegna a sé stesso. Non è stato l'unico nella storia recente del Regno Unito. Margaret Thatcher prima di lei, al punto che fu indicato come il vero erede della Signora premier e, forse, David Cameron dopo.

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La lunga storia politica di Tony Blair

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È presto per dire che primo ministro sarà David Cameron. È vero, ha adottato alcune politiche, ad esempio sulla scuola, che sono in linea con le mie. Su altre sono in disaccordo. La verità è che la Gran Bretagna e non solo la Gran Bretagna, ha bisogno di un processo continuo di modernizzazione. Margaret Thatcher rese più competitivo il modello di business, io ho tolto la patina conservatrice, lavorato sul welfare. È stato diverso, ma se si ricerca un elemento unificatore credo che sia la voglia di modernizzare. Margaret Thatcher e io siamo stati innovatori, in aree e modi diversi.

Vuole dire che è il momento delle personalità più che delle ideologie per gestire e trasformare un mondo complesso?
La metterei in termini diversi. La personalità è sempre stata centrale nella politica, ma sinistra versus destra nell'accezione ultimativa del Ventesimo secolo è contrapposizione tramontata, anche se molti politici non lo hanno ancora accettato. Oggi la discriminate è apertura versus chiusura ai fenomeni derivati dalla globalizzazione. Per questo l'immigrazione, per esempio, è tema centrale per tutti.

La sinistra, in Italia e in Europa, non s'è del tutto adeguata a questa logica.
La sinistra vincerà quando deciderà di voler vincere. Deve fare una sola cosa: analizzare il mondo come il mondo è oggi, non com'era, o come vorrebbe che fosse, o come avrebbe voluto che fosse stato. Valuta il mondo com'è e troverai le risposte giuste. È ricetta buona per tutti: i partiti progressisti vincono quando sono all'avanguardia nel capire il futuro, sono sconfitti quando diventano una brutta copia dei conservatori. Quelli con la "c" minuscola.

Gordon Brown ha perso elezioni che, secondo lei, avrebbe potuto vincere se avesse spinto sulla dottrina New Labour. Non crede sia stata la crisi del credito a indurlo a trincerarsi verso dinamiche più tradizionalmente socialdemocratiche?
Quando la crisi finanziaria ha colpito, a sinistra c'è stato un sentimento forte contro le logiche di mercato e molti si sono anche fatti scappare un "finalmente". Ma l'opinione pubblica no. Il problema di Gordon e di molti altri è stato credere che lo stato fosse tornato di moda, che le politiche sarebbero andate nella direzione pubblica e l'elettorato automaticamente a sinistra. Non poteva succedere perché i cambiamenti sociali avvenuti prima della crisi sono sopravvissuti alla crisi. Gli elettori sanno che parte del mercato ha fallito, si arrabbiano, ma non credono che la risposta sia lo stato.

Una delle conseguenze lasciate dal credit crunch riguarda i destini incerti delle banche britanniche. A Londra e solo a Londra si parla di spaccare gli istituti di credito universali, dividerli in banche retail e investment banks. È d'accordo ?
Si tratta di giudicare in termini di giusto o sbagliato non destra o sinistra. Come dire: nessuna impostazione ideologica. Vedremo quello che dirà la Commissione governativa chiamata a studiare il dossier e proporre soluzioni. Ma come ho sostenuto nel mio libro questa crisi non significa fallimento del sistema finanziario nel suo complesso. Ha fallito solo una parte di esso per via di fenomeni globali di cui nessuno di noi aveva esatta e precisa conoscenza. Ora non si deve necessariamente abbandonare l'impostazione del passato, può bastare introdurre nuove regole e nuove forme di vigilanza.

Lei premier laburista ha, nel suo libro, parole di stima nei confronti di Silvio Berlusconi e non solo per la mano che ha dato a Londra nella corsa per le Olimpiadi del 2012. Eppure i media inglesi non sono mai stati teneri con il presidente del consiglio italiano.
Non credo solo quelli britannici. È la naturale tendenza della stampa di collocare gli uomini politici in categorie facilmente riconoscibili. Ci sono opinioni convenzionali su come debba essere un leader, ma Silvio non ha assolutamente niente del politico convenzionale. È unico. La conseguenza è che chi non si capisce finisce per non piacere. Io vado d'accordo con lui perché è diretto e leale alla parola data. L'ho sempre detto, a tutti. Ed è il motivo per cui ci intendiamo. Non solo. È obiettivamente divertente e nella politica è importante anche potersi rilassare. Non mi dimenticherò mai quando prima o dopo una conferenza stampa, credo a microfoni chiusi, mi disse: «Se tu fossi una donna mi innamorerei di te!». Nessun primo ministro al mondo direbbe una cosa genere, ovviamente scherzando. La politica può essere mortalmente noiosa, ma se incontri un personaggio di quel calibro almeno si sorride.

Crede al parallelo fra la crisi Blair-Brown e quella Berlusconi- Fini?
No, sono storie completamente diverse. In Italia, mi creda, avete eccellenti politici con i quali sono ancora in contatto, ma oggi è molto più dura di prima. Ne ho parlato di recente con Bill Clinton. Lavorammo insieme quando lui era a fine mandato e io all'inizio. Erano tempi complessi, ma non difficili come oggi, quando questioni politico-diplomatiche, economiche e di sicurezza si incrociano con implicazioni culturali. Pensiamo a quanto è accaduto dopo l'11 settembre all'imporsi dell'emergenza sicurezza, all'estremismo islamico, all'avvitarsi della crisi economica e all'Oriente. Non mi stanco mai di ripeterlo: andate in Cina, India, Indonesia ma anche in Brasile a vedere un mondo trasformato.

Eppure proprio ora si riparte con la partita mediorientale. Lei da anni è inviato speciale del Quartetto per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese come valuta la ripresa dei negoziati?
Speriamo. Ma oltre alla speranza penso che questo possa essere il punto di svolta. Lo credo per quattro buoni motivi. Prima di tutto il presidente Obama ne ha fatto una priorità della presidenza. In secondo luogo mi sono convinto che i due leader, (Benjamin Netanyahu e Abu Mazen ndr) vogliano la pace. Infine il successo della trattativa lo invoca, ora, la leadership del mondo arabo e soprattutto la gente.

Sull'area pesa un'altra incertezza, un'altra incognita: l'Iran. Crede che l'Occidente si stia muovendo con decisione o sia frenato da troppi dubbi ?
Spero che l'Iran cambi il suo atteggiamento. Resto convinto che non si possa correre il rischio di avere un Iran nuclearizzato perché il rischio di destabilizzazione sarebbe altissimo per la regione e per il mondo. Ci affidiamo alle sanzioni e alla diplomazia. Non temo nella debolezza del mondo occidentale, temo invece che l'Iran creda che ci siano divisioni e fragilità. Io non ne vedo. Il presidente Obama ha una strategia chiarissima: offre una mano al regime promettendo che nessuno cerca di promuovere ribaltamenti interni, ma traccia anche una linea rossa. Una linea netta che Teheran non dovrà oltrepassare

Meno sanguinoso, più vicino, ma piuttosto incerto è anche un altro conflitto, quello per la leadership del suo partito. Miliband contro Miliband, David contro Ed. Quale Miliband, signor Blair?
Ho lavorato con David da vicino. Ma sosterrò comunque il Miliband che vincerà.

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