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La svolta federalista sospesa tra rigore e prassi clientelari. Ecco quale Italia ne emergerà

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Questo articolo è stato pubblicato il 16 settembre 2010 alle ore 08:06.

Quale Italia verrà fuori dalla riforma federalista? «Se il federalismo fiscale è rigoroso, deve produrre più infrastrutture al Nord e taglio di posti di lavoro nella sanità assistita del sud». Il direttore del Censis, Giuseppe Roma, sintetizza così la scena dell'Italia federale perché se una riforma è vera «deve produrre lacrime e sangue, cioè reale riduzione della spesa pubblica». Subito aggiunge un avvertimento, però. «Se non accade questo, se non viene esaltata la funzione razionalizzatrice del sistema federalista, allora il cambiamento si tradurrà solo in uno spostamento di quote di potere e di spesa pubblica dal centro alla periferia. In questo caso, sarà alto il rischio che i governatori, in sede locale, usino leve come l'addizionale Irpef per aumentare e non diminuire la pressione fiscale».

Questa «ambiguità» della riforma federalista, sospesa fra «svolta rigorista» e «continuismo clientelare», non è risolta neanche dagli ultimi testi elaborati dal governo su fisco regionale e costi standard: lo sottolineano tutti quelli che accettano di sottoporsi all'esercizio di immaginare l'Italia di domani, politologi, economisti, urbanisti, sociologi. La possibilità di aumentare le addizionali Irpef, l'Irap nelle mani dei governatori e i costi standard in versione soft non sono garanzie che il risultato finale del federalismo fiscale sia davvero quello del rigore.

«I decreti attuativi - dice Nicola Rossi, economista e deputato Pd poco ortodosso - sono ancora contenitori ambigui che possono contenere di tutto: un federalismo annacquato e vago che continua a garantire clientele nel Mezzogiorno oppure un federalismo rigoroso e sostanziale che aiuti il Sud a rendere più efficiente la gestione dei grandi flussi di risorse che continueranno ad arrivare, anche dall'Europa». Per Rossi il federalismo deve essere rigoroso e indurre le classi dirigenti del Mezzogiorno a riproporsi come «classe dirigente di livello nazionale»: una forma di orgoglio che hanno perso ormai da molti decenni.

L'ambiguità che sottolinea è molto diversa da quella che denunciano molti altri a sinistra: federalismo virtuoso o rischio di secessione. Semmai il rischio secessione non sembra venire tanto da questa riforma quanto dal suo possibile fallimento o svuotamento di effetti reali. In quel caso le vecchie idee leghiste, in versione hard, potrebbero tornare di moda. Così come potrebbe tornare di moda una secessione soft alla bavarese: il federalismo si attua al nord che è in grado di rispettare i parametri e il resto del paese resta indietro.

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Più infrastrutture al Nord, taglio di occupazione nella sanità al sud: il direttore della fondazione Nord-est, Daniele Marini, concorda sull'efficacia di questa sintesi. «La realizzazione dell'Alta velocità Milano-Venezia - dice - è ciò che cittadini e imprese del nord-est si aspettano prioritariamente dalla riforma federalista: il disegno che vedo andare avanti mi pare coerente con questa aspettativa». Ferrovie e strade sono un modo per sintetizzare le esigenze del territorio, ma il discorso non cambia se si allarga alle infrastrutture immateriali come la banda larga o al nuovo welfare locale che riguarda anziani e immigrati. «Qui alcune amministrazioni locali hanno già un alto livello di responsabilizzazione civile - dice Marini - e siamo convinti che il federalismo possa portare anche le altre amministrazioni a questi livelli. Il federalismo deve soprattutto eliminare i vincoli del patto di stabilità che impediscono ai comuni virtuosi di spendere le loro risorse in favore della collettività».

Anche Marini vede, però, rischi e ambiguità connessi all'avvio del sistema. «Paradossalmente - dice - la fase di avvio del sistema potrebbe portare a una riduzione delle risorse disponibili o, se vogliamo, a un aumento della pressione fiscale anche al nord. È alto infatti il rischio che lo spostamento di funzioni dal centro alla periferia comporti in prima battuta una duplicazione di strutture e una lievitazione di costi». Roma dal canto suo vede un altro rischio: la duplicazione delle regole. «È già successo con l'urbanistica - dice - quando la competenza è passata alle regioni: le imprese si sono trovate a fronteggiare una sovrapposizione di regole tra centro e periferia e regole diverse sul territorio nazionale per situazioni analoghe». Ultimo esempio, il piano casa.

Anche Innocenzo Cipolletta riscontra da economista profonde ambiguità nel percorso federalista. «Non possiamo neanche parlare di federalismo, ma di decentramento fiscale, perché non abbiamo risorse prelevate in ambito locale e poi trasferite al centro per la quota di servizi nazionali svolti, come è nei sistemi federalisti. Abbiamo il governo che decide che quote trasferire in periferie e anche a quali costi standard devono essere forniti i servizi». Inoltre l'Irap messa nelle mani dei governatori rischia di creare penalizzazioni pesanti alle imprese in ambito locale, come già avviene per i deficit sanitari.

Sintetizza Gisueppe Roma: «Difficile dire che cosa sarà l'Italia federale perché dovremmo accompagnare questa fase di transizione con riforme e provvedimenti che aiutino il federalismo ad andare nella giusta direzione. Per esempio, riducendo davvero la spesa pubblica e premiando i comportamenti virtuosi. Oggi tutto questo non è scontato affatto».

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