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«Se Tulliani è proprietario della casa di Montecarlo mi dimetto da presidente della Camera»

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Questo articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2010 alle ore 14:19.

ROMA - «Se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera». Per la prima volta Gianfranco Fini ipotizza di poter lasciare lo scranno più alto di Montecitorio. Dice di aver agito forse con «leggerezza» e «ingenuità», di avere anche lui dubbi ma nega recisamente un suo coinvolgimento. Se mai dovesse abbandonare lo scranno più alto di Montecitorio, non sarebbe dunque per sue «personali responsabilità» che, rivendica, «non ci sono», ma solo perché «la mia etica pubblica me lo imporrebbe». Fini rivendica le mani pulite, 27 anni di carriera parlamentare senza nemmeno essere sfiorato da sospetti o avvisi di garanzia. Adesso però basta con questo «gioco al massacro», «fermiamoci» dice il presidente della Camera perché così «si distrugge la democrazia».

Un invito alla responsabilità verso gli italiani che sia attendono che «la legislatura continui». Un messaggio che ha come primo destinario Sivio Berlusconi. I finiani non staccheranno la spina al governo. Se qualcuno vuole romepere se ne dovrà assumere la responsabilità. Fini parla per una decina di minuti. Il discorso ha avuto una lunga gestazione, in mezzo alla quale c'è stata la conferma della dichiarazione del ministro della giustizia di Santa Lucia, che confermava l'autenticità della lettera in cui sosteneva esserci Giancarlo Tulliani dietro le società offshore proprietarie dell'immobile, e il colpo di scena di stamane dell'avvocato vicentino Ellaro, il quale assicura che in realtà il proprietario sarebbe un suo facoltoso cliente.

Preparato assieme a Giulia Bongiorno, presidente della commissione giustizia e suo avvocato, è stato registrato solo ieri pomeriggio nella sede di Farefuturo, la fondazione di cui Fini è presidente, e diffuso sulla rete attraverso tutti i siti finiani (Generazione Italia, Il Secolo, Libertiamo e la stessa Farefuturo). Fini ha dunque deciso di parlare fuori da Montecitorio, dalle istituzioni. Anche questo è un segnale. Dopo giorni in cui dagli uomini più vicini del presidente della Camera, a partire da Italo Bocchino, hanno lanciato pesantissime accuse parlando di «servizi deviati», di «patacche» preconfezionate da persone vicine al premier, ieri Fini ha messo un punto. Anzitutto ribadendo piena fiducia in Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega sui servizi, e nel capo dell'intelligence italiana Gianni De Gennaro. Non è a loro che Fini pensa quando ribadisce che in questa vicenda ci sono comunque troppe «pagine oscure».

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La casa di Montecarlo è diventata «un affare di Stato», per una «ossessiva campagna politico mediatica» – accusa – dei giornali del centro-destra, finalizzata a «delegittimarmi». Nessuna censura, nessun voler mettere le briglia alla libertà di stampa ma «giornali e televisioni non possono essere utilizzati per colpire «a qualunque costo» l'avversario politico, perché così facendo le notizie vengono utilizzate come un «manganello», anche attraverso «insinuazioni e calunnie» alimentate da personaggi «torbidi e squalificati». Fini non fa nomi ma parla di «faccendieri professionisti» (Lavitola?) a spasso in Centro America, non si sa bene pagati da chi, alla ricerca della «prova regina della mia presunta colpa». Stigmatizza il comportamento del ministro della Giustizia di Santa Lucia, che in una lettera riservata («salvo poi finire in mondovisione») scriveva al suo premier perché preoccupato del buon nome del Paese per la presenza di società off-shore coinvolte «non in traffici d'armi o di droga» ma in «una pericolosissima compravendita di un piccolo appartamento a Montecarlo».

I dubbi dunque restano. Anche quelli però su Giancarlo Tulliani. «Anch'io mi chiedo – e ne ho il pieno diritto visto il putiferio che mi si è scatenato addosso – chi sia il proprietario», nonostante il cognato abbia più volte «privatamente e pubblicamente» negato. È la prima volta che lo dice apertamente. Di più, dopo aver ribadito di aver appreso solo dopo che Tulliani fosse l'affittuario di quella casa, rivela di avergli chiesto «con toni tutt'altro che garbati» di andarsene e ha aggiunto che spera ancora che lo faccia, «non fosse altro che per restituire un po' di serenità alla mia famiglia». Fini ricostruisce la storia della vendita. Spiega che la casa («non una reggia anche se sta in un principato») fu ereditata da An nel 1999 e stimata per un valore di circa 230mila euro. Che essendo in condizioni fatiscente e inutilizzabile per le attività di An, nel 2008 fu venduta alla Primtemps, società off shore segnalatagli dal cognato. Il prezzo fu di 300mila euro e fu considerato adeguato perché «superava il 30% del valore stimato dalla società monegasca che amministra l'intero condominio», dice sventolando un foglio che presumibilmente è la copia della stima. «Si poteva spuntare un prezzo più alto? È possibile», ammette Fini, che ricorda che su questo punto è stata «doverosamente» aperta un'indagine della procura di Roma a seguito della denuncia di due esponenti de La Destra di Francesco Storace. «Attendo con fiducia l'esito delle indagini» ribadisce il presidente della Camera che attacca: «A differenza di altri non strillo contro la magistratura». Anche se, sottolinea, in questa storia non ci sono né concussione né corruzione né uso improprio di risorse pubbliche. Adesso però basta. «Fermiamoci tutti», «torniamo alle cose serie». Il cerino passa al premier.

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