Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 12 ottobre 2010 alle ore 21:49.
GENOVA - Sette minuti di partita. Il resto è guerra. Scene che Genova ha già vissuto con la tragica esperienza del G8 e che i genovesi hanno ancora bel scolpite nella mente. All'interno dello stadio, in attesa della gara tra Italia e Serbia, valida per le qualificazioni agli Europei del 2012, cominciano ad arrivare notizie frammentarie di scontri nei pressi di Marassi e bollettini di feriti. Eppure la percezione non è quella del disastro che si sarebbe scatenato di lì a poco.
L'energumeno con il passamontagna nero che cavalca impunito la recinzione armato di tenaglie, le cui immagini faranno il giro del mondo nel giro di poche ore, sembra "solo" il simbolo della vergogna e dell'incapacità di arginare i parassiti che scelgono il calcio per sfogare ogni sorta di frustrazione. Il popolo azzurro di Marassi, insomma, storce la bocca, fischia, ma non si allarma. E aspetta gli inni nazionali per dare il via alla festa. Genova ha voglia di abbracciare Palombo, Cassano e Pazzini.
Partono gli idranti per placare i circa duemila serbi sistemati nella gabbia degli ospiti, lo spicchio di tribuna riservato agli osservati speciali. Decine di fumogeni e bombe carta introdotte impunemente all'interno dello stadio piovono sul terreno di gioco. La polizia in assetto di guerra fa il possibile per non inasprire una situazione sempre più critica che monta col passare dei minuti. E comincia a degenerare quando il vetro antisfondamento viene forzato e incrinato.
Il basso profilo non è più possibile. Un cordone di agenti si fa sotto, la tensione sale alle stelle. Una delegazione della formazione serba, capitanata da Dejan Stankovic (imbarazzato e in lacrime nel dopo gara) prova invano la carta dell'appello pacifico. Intanto nelle viscere dello stadio si compone il puzzle. Il portiere serbo Stojkovic, condannato per il suo passaggio dalla Stella Rossa al Partizan Belgrado, si rifugia tremando come una foglia nello spogliatoio azzurro. È tutto più chiaro. Non si tratta di un gruppo di ultrà esagitati ma di una vera e propria spedizione punitiva, legata forse alla sconfitta della Serbia contro l'Estonia di venerdì scorso. Con tanto di minacce ignorate o sottovalutate dagli addetti alla sicurezza che ora dovranno rispondere di quanto accaduto nelle ore precedenti e successive.