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Finanza e Mercati In primo piano

La guerra delle valute presenta il conto sul tavolo di Europa ed emergenti

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2010 alle ore 06:36.

Gill Marcus, 61 anni appena compiuti, è destinata ad arrivare sempre prima. Nel 2009 è stata la prima donna nominata governatore della Banca centrale del Sud Africa. Nel 2010, una settimana fa, è stata invece la prima al mondo ad alzare la bandiera bianca nella «guerra delle valute»: non ce la possiamo fare – ha dichiarato – non possiamo contrastare il rialzo del rand. La moneta sudafricana si è apprezzata del 37% da inizio 2009 e del 12,3% negli ultimi otto mesi. E Gill Marcus non sa più come fare per arrestarne il rialzo. Ci ha provato, ma poi ha desistito: il costo è eccessivo, lo sforzo è velleitario.

Gill Marcus è, dunque, la prima ad essersi arresa. Tutte le altre banche centrali, o governi, stanno infatti ancora combattendo per svalutare le loro valute o per contrastare il collasso del dollaro. Stati Uniti e Gran Bretagna stampano moneta. Altri stati (Brasile o Thailandia) alzano le tasse sui flussi di capitali in entrata. Altri ancora (per esempio il Giappone o la Svizzera) intervengono direttamente sul mercato valutario. Tutti si danno da fare, ma per ora è il dollaro a vincere: cioè a deprezzarsi veramente. Sabato i ministri finanziari del G20 si sono impegnati a bloccare le svalutazioni competitive, ma resta da vedere se alla prova dei fatti l'impegno sarà mantenuto. Gli economisti sono scettici. Tanto che cercano già di individuare i potenziali sconfitti di questa guerra: forse i paesi emergenti, più probabilmente l'Europa. Forse i mercati finanziari, sempre più a rischio di bolle.

La bomba americana
Il via alla guerra l'hanno dato gli Stati Uniti. Annunciando di essere pronta a stampare moneta un'altra volta con il meccanismo del quantitative easing, la Federal Reserve ha causato una sorta di tsunami in tutto il mondo. Ben Bernanke, il capo della Fed, dal suo punto di vista non ha scelta. Gli Stati Uniti, dopo tre anni di crisi e migliaia di miliardi di dollari spesi, hanno infatti ancora un tasso di disoccupazione al 9,60%. E in un paese dove gli ammortizzatori sociali sono minimi, chi perde il lavoro perde tutto. Se l'economia non è più in grado di creare occupazione, la povertà aumenta. Ecco perché, dopo averle provate tutte, la Fed ha deciso di giocare la carta più forte: la bomba del quantitative easing.

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Per la seconda volta dall'inizio della crisi, la banca centrale comprerà quindi titoli di stato (e non solo), stampando moneta per miliardi e miliardi. L'importo è ancora da definire. Ma l'effetto è già ben visibile: da un lato sono scesi i rendimenti dei titoli di stato Usa (il che aiuta chi ha tanti debiti), dall'altro si è svalutato il dollaro (il che facilita le esportazioni). Ma per una valuta che perde quota, ce ne sono cento che si rafforzano. Lo yen, che in sei mesi si è rivalutato del 14%, è sui massimi degli ultimi 15 anni. L'euro è tornato a 1,40, salendo del 14,4% in soli cinque mesi. L'elenco è lungo. E il fatto inizia ad essere intollerabile per molti governi.

Le mille bolle speculative
A peggiorare la situazione sono stati poi i capitali privati. Se i titoli di stato Usa rendono una miseria e il dollaro crolla, gli investitori hanno infatti solo una cosa da fare: dirottare i loro denari su investimenti più remunerativi. Per esempio sui paesi emergenti. È così che in Brasile – secondo i dati elaborati per Il Sole 24 Ore dall'Institute of International Finance – nel 2010 sono stimati 123,8 miliardi di capitali privati netti in entrata: questo significa che gli investitori stanno puntando sulle azioni e sui bond del paese sudamericano il 272,9% in più rispetto al 2008 e il 68% in più rispetto al 2009. La conseguenza è ovvia: la Borsa brasiliana è salita del 19% dai minimi del 2010, i bond hanno ridotto i rendimenti di 59 punti base e la valuta è volata del 12,3% in pochi mesi.

E il caso del Brasile è solo un esempio. L'Iif calcola che i flussi netti di capitali in entrata in tutti i paesi emergenti sono passati da 581 miliardi di dollari del 2009 a 825 miliardi del 2010: un aumento del 42%. E infatti quasi tutte le Borse e le valute di questi paesi sono salite. L'altro grande mercato dove gli investitori stanno spostando i denari è quello delle materie prime: nel solo mese di settembre – calcola Barclays – hanno attirato 8,5 miliardi di dollari. Ovvia la conseguenza: i prezzi salgono. Oro, stagno, argento, cotone, caffè sono per esempio sui massimi storici o di molti anni. Ma, in realtà, tutto ciò che offre buoni rendimenti attira i capitali: obbligazioni ad alto rischio, azioni. Tutto. Secondo l'indagine mensile di Bank of America, gli investitori hanno portato il loro appetito per il rischio al massimo degli ultimi 18 mesi. Insomma: l'economia peggiora e gli investitori che fanno? Comprano allegramente tutto ciò che abbia sapore di rischio. Paradosso. O bolla?

La grande guerra
A peggiorare ulteriormente la situazione c'è la risposta alla Fed delle altre banche centrali. Per contrastare il crollo del dollaro qualcuno ha alzato le tasse sui capitali in entrata: è il caso per esempio del Brasile e della Thailandia. Altri sono intervenuti direttamente sul mercato valutario. Come? Acquistando titoli di stato americani. E qui arriviamo al secondo paradosso: la Federal Reserve compra T-Bond per abbassare il dollaro (perché per lei equivale a stampare moneta), mentre le banche centrali estere acquistano gli stessi T-Bond per rivalutare il dollaro (perché per loro equivale a comprare biglietti verdi). Gli obiettivi sono opposti, ma il risultato è lo stesso: tutti si gettano sui T-Bond Usa. Secondo i dati del Tesoro Usa, da inizio anno gli investitori esteri (principalmente banche centrali) hanno comprato in asta 654 miliardi di dollari di titoli di stato a medio-lungo termine e 1.192 miliardi a breve termine. Non si erano mai viste cifre così. Morale: i rendimenti dei T-Bond sono sui minimi storici, sebbene gli Stati Uniti siano il paese più indebitato al mondo. Paradosso. O, ancora, bolla?

I perdenti: Europa in primis
In questa grande guerra solo la Banca centrale europea non si fa sentire. Nonostante il grande rialzo dell'euro, che rischia di minare la crescita economica, la Bce non sta facendo nulla. Anzi: a differenza degli altri stati, sta favorendo il drenaggio di liquidità dal sistema bancario. Qualcuno è convinto che il Vecchio continente sia allo stato attuale un «assorbitore di shock»: perché ha una moneta molto liquida (l'euro) che sta diventando la cassa di compensazione della crisi valutaria. Se l'Europa avesse le spalle larghe, saremmo tutti felici di assorbire gli shock altrui. Il problema è che non le ha, perché ha molti stati in crisi come la Grecia e l'Irlanda. In un mondo normale questi stati svaluterebbero le loro valute e stamperebbero moneta. Ma Grecia e Irlanda non possono, semplicemente perché non hanno né una valuta e né una banca centrale propria. Il rischio è che soccombano senza poter neppure reagire. E la Bce? Resta a guardare.

Ci sono poi i paesi emergenti: potrebbero essere loro – afferma Gaelle Blanchard, strategist di Societé Générale – «a perdere in partenza» la guerra delle valute. Questi paesi vivono ancora una situazione di espansione economica, per cui riescono a resistere al rialzo delle valute. Ma se si tira troppo la corda, il rischio è di spezzarla. I paesi esportatori potrebbero soffrire per primi per il rincaro delle monete. Ma anche gli importatori potrebbero subirne le conseguenze. Prendiamo l'esempio del Brasile, il cui export pesa solo per il 10% del Pil. Poco. Eppure il rialzo del real è un problema, tanto da indurre il governo a tassare i capitali in entrata.

Perché? «La preoccupazione riguarda le importazioni – spiega Eduardo Loyo, capo economista della banca brasiliana Btg Pactual –. Il Brasile ha infatti una forte crescita economica, che nell'ultimo anno è stata trainata dalle importazioni, salite del 30%. Questo significa che i consumi aumentano, ma la produzione industriale interna non si incrementa di pari passo». È molto difficile capire chi rischia di perdere questa guerra. Ogni stato è un mix di importazione ed esportazioni, di aziende cicliche e non cicliche. Il rischio, se la promessa del G20 non fosse mantenuta, è però che inizi un'era dominata dal protezionismo. Dalle svalutazioni competitive. In tal caso a perdere saremmo tutti.

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